Magazine Diario personale

Il processo di rimozione.

Creato il 22 luglio 2014 da Denise D'Angelilli @dueditanelcuore

Due anni fa a quest’ora ero sdraiata sulle scomode sedie della sala d’attesa del pronto soccorso di Tor Vergata, avevo il telefono stretto tra le mani mentre aspettavo che mi telefonasse il mio amico dopo che io, alle quattro del mattino, gli avevo scritto che avevo bisogno di lui.

Ma era sabato sera, lui era uscito e io, ancora una volta, non avevo detto a nessuno cosa stesse succedendo. Sedata come un cavallo da quella puntura sotto la lingua che quel pizzico ancora mi sembra di sentirlo, un minuto prima sei pronta a prendere a calci quella macchina stronza che ha deciso che non c’è più battito e un minuto dopo la testa pesa, e pesano le gambe, e le braccia, e anche piangere diventa faticoso, così ti accasci, mentre aspetti che vengano a dirti che andrà tutto bene. Stanca, sudata, incredula, quando mi sono svegliata tutti mi chiedevano “come stai?”e io non capivo perché. Mi offrivano le patatine della macchinetta, una spalla su cui piangere, un abbraccio, una sigaretta, e io lì, catatonica, che non capivo perché mi stessero dando tutte queste attenzioni. Siamo in un ospedale ma non sono io quella malata, il malato è al di là della porta che dorme, andate a salutare lui. Io ho ancora tempo per abituarmi all’idea di non poter essere accompagnata all’altare, voglio solo dormire un po’, poi entro anche io, aspettatemi di fianco al suo letto, vi dirà che vuole della coca cola, voi dategliela, poi vi dirà che non vi vedrete più, voi fate finta di niente. Fino a che ti strattonano, ti dicono di svegliarti, di guardarti intorno e capire e lo capisci così, di colpo, di essere diventata orfana, quando l’effetto della puntura un po’ ha iniziato a scemare, anche se a dire la verità è durato quasi tre giorni perché io, ancora oggi, non ricordo proprio un gran cazzo di quello che sia successo dopo, delle mille facce che ho visto e dei mille messaggi che ho ricevuto, e forse è anche meglio così. Ci ho messo due anni a capire che orfana è una parola come le altre, come morte e come tumore, e che non deve fare paura. Lo sono, sono anche donna, intelligente, alta, e non ho il papà. Quante altre persone lo sono? Parecchie. È più una parola che una condizione, è quello che devi per forza rispondere quando ti chiedono dei tuoi genitori, ma non provate pena per noi, noi non ne proviamo mai per noi stessi.

Passerà, farà meno male, il dolore si affievolirà, tutte cazzate che mi ripetevano a cantilena mentre io volevo solo una bottiglia di vodka e un panino col salame, ché tanto tutte le battaglie contro il peso e contro l’etica a quel punto non servivano più a un cazzo. Non l’ho mangiato il salame, ho bevuto il Martini bianco che mi fa anche schifo, ma in casa mia ce n’era davvero bisogno.
Finché un giorno ti svegli che sono passati 365 giorni per due e io non so nemmeno quanto fa, e non conti più da quanto tempo lui non c’è più, fai futili discorsi uomo-donna e amica-amica per l’intera mattinata, perdi venticinque minuti per decidere quale tinta rossa comprare, mangi un piatto di maccheroni al formaggio e sali in macchina per andare a prendere i bambini al centro estivo, e mentre sei bloccata nel traffico con trenta gradi e un vestito troppo pesante per queste temperature ecco che ti telefona la persona che forse ha sofferto più di te, assurdo da pensare ma forse il legame tra fratelli è davvero troppo forte da spezzare e ti chiede come stai, rispondi che stai benissimo, eh ma è una brutta giornata qua – dice lui – ah a Roma piove? Che peccato qui c’è il sole. No ecco – dice sempre lui – intendo che oggi è 22 Luglio e quindi è proprio una brutta giornata. E tutto diventa buio, come se qualcuno avesse calato un sipario, capisci improvvisamente perché ti ha chiamata all’ora di pranzo di martedì quando il vostro settimanale appuntamento al telefono è sabato sera alle 22 italiane. Oggi è oggi, oggi è due anni da quando mi hanno detto tutti “io per qualunque cosa ci sono” e poi sono spariti, da quando mi hanno messo davanti un cazzo di catalogo di bare e mi hanno chiesto di scegliere, a me, che fino a dieci ore prima avevo un padre e in quel momento ero talmente sotto l’effetto dei tranquillanti che reggermi in piedi era faticoso quanto correre una maratona. Oggi è oggi e io me lo sono dimenticato. Mi sono sentita colpevole e ho solo risposto che oggi non esiste più, che il 22 di Luglio è stato tolto dal mio calendario, è solo un limbo tra il 21 e il 23. Un 21 Luglio Bis, ti risponde lui, e sì, così sia, amen.
Non lo so se si è finalmente attivato il processo di rimozione, quello che hai paura di nominare perché ti sembra troppo simile al dimenticare, e invece, dopo due anni, capisci che è solo spostare tutto in uno scompartimento leggermente più nascosto del cervello, quello che si apre solo una volta ogni tot e non più ogni minuto, è ricordare la vita e non la morte, è tenere vivo il ricordo bello e dei suoi occhi che pieni di vita ti guardano come si guarda una propria creazione, e non quello degli occhi stanchi che ti fissano e ti chiedono di far smettere tutto il dolore, che ti dicono che si vogliono chiudere per non riaprirsi mai più.
Il 22 Luglio non esiste, oggi è il 21 Luglio bis, e oggi, io, ho imparato a rimuovere senza dimenticare.



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