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Vedendo "Il procuratore", l'ultima fatica di Ridley Scott, regista tanto affascinante quanto discontinuo, si ha come l'impressione di un evidente squilibrio, di un disinnescamento interno al genere proprio perchè "troppo" di genere, di una difficoltà a seguire piste e canoni già decodificati e continuare a farsi prendere sul serio: è come se "Il procuratore" fosse quell'oggetto filmico ambiguo e straniante che non può fare a meno di cadere nella parodia di se stesso. All'interno di un meccanismo che fa della prevedibilità il suo obbligo narrativo si spalanca davanti agli occhi l'assoluta non credibilità di quanto si vede, non perché gli eventi narrati dal film non abbiano una loro verosimiglianza, ma perché sono così ipernarrati da deformarsi, da pervertirsi fino ad annullarsi.
Insomma, era difficile vedere "Il procuratore" senza ricordarsi di stare vedendo un film; zero sospensione d'incredulità, puro, straniante gioco metacinematografico: dalla recitazione e dai volti glamour degli attori all'aderenza mimetica nei confronti delle figure archetipali di un intero genere: la femme fatale su tutti, così algida così cattiva così finta così Cameron Diaz da essere una macchietta priva di qualsiasi spessore. Viene il sospetto che non si tratti di un'operazione perfettamente consapevole perché Scott mi pare privo dell'ironia necessaria che necessita un film del genere, ma siamo (questo sì) in piena e superata ottica postmoderna, che ricicla e non reinventa, che fonde e insieme confonde. D'altronde l'eccesso di scrittura di Colman McCarthy plasma il film dall'inizio alla fine, rendendolo gioco letterario fine a se stesso, sì virtuoso e vacuo, ma anche efficace e paradossalmente esilarante.
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