Ho sempre avuto pudore nel far sapere agli altri che scrivo. Qualcuno dice che la riappropriazione dell’identità è un preliminare per dare soluzioni appropriate a certi problemi. E la mia identità è sempre stata in ciò che scrivo. Eppure, qualche settimana fa, quando un collega mi ha fermato fuori dall’ufficio esclamando, “Ma tu scrivi!” (si era imbattuto per caso in qualcosa di mio), io ho abbassato gli occhi e con un concentrato di imbarazzo e fastidio ho mormorato, “Lo fanno in molti”. Insomma, la mia è stata la tipica reazione turbata di un peccatore sorpreso nella sua perversione, ho minimizzato, ridimensionando di parecchio la portata di questo mio vizio, di questa mania che mi porto appresso come un’onta. Oggi in effetti scrivono in molti, quasi tutti (contando i reticenti). A quanto pare scrivere è una delle attività più desiderate dall’uomo. Molti si fermano a una semplice dichiarazione d’intenti, che in un certo modo diventa sufficiente per appropriarsi della qualifica di scrittore. Conosco qualcuno che quella qualifica se la mette perfino sul biglietto da visita. Le qualifiche in generale mi imbarazzano, dovrebbe bastare un nome e un cognome per giudicarci degni di essere cittadini del mondo. Io no. Io nego anche l’evidenza. La scrittura la ritengo un fatto privato, come andare al gabinetto, o come setacciare la dispensa alle 3 del mattino in cerca di una stecca di cioccolata. La domanda successiva del mio collega è stata, “Ma tu scrivi libri?”. Al che ho risposto, “No, io mi fermo sempre un secondo prima”. Ci ha messo un po’ di tempo per capire. O forse non ha ancora capito.
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