Magazine Cultura

Il punto di vista dello scrittore

Da Marcofre

Una tra le cose più importanti che il giovane autore arriva a comprendere è che il punto di vista è uno strumento, non un fine in sé; che è utile come lente, ma non come uno specchio che rifletta un viso caro e pensoso.

Lo scrive Eudora Welty a pagina 78 del suo “Una cosa piena di mistero”.
Il bello di certi libri è che ti fanno sentire meno solo. Quando ti rendi conto che quello che intuisci in modo confuso, ha una sua solidità, e soprattutto ha senso, tiri un sospiro di sollievo.

Si è già detto e scritto molto sul punto di vista, che deve essere personale, eccetera eccetera. Tutte cose molto sagge, ma a una sola condizione. Se si comprende che non è lo strumento per celebrare le proprie idee, ma per indagare. E dall’indagine approdare a una consapevolezza, o meglio ancora alla compassione per gli uomini e le donne di questa terra.

Quando si è agli inizi è affascinante scrivere, perché ti sembra il mezzo più democratico e facile per illustrare il tuo punto di vista sulle cose. Una volta facevo così pure io: per fortuna quel tempo è tramontato, e sono in pochi coloro che hanno avuto la (s)fortuna di leggere quelle opere. Soprattutto, non c’è nulla di quella roba in giro.

Ma certi fascini sono dannosi. Poco dopo la Welty aggiunge:

Costruire un mondo d’apparenza a prova di infiltrazione non è solo la prima responsabilità di un autore, ma il primo passo tecnico in ogni genere di narrativa.

E l’infiltrazione si verifica quando saliamo in cattedra, e pontifichiamo. Anche se può sembrare bello, e giusto, e di certo è una scelta da rispettare, dobbiamo poi ammettere che non funziona.

Un parquet si guasta se c’è un’infiltrazione d’acqua; lo stesso capita in una storia dove l’autore si accomoda. Non è lui che deve accomodarsi, ma il lettore.

Nell’affermazione della Welty troviamo una parolina che molti non apprezzano affatto: tecnica. Per alcuni (e sono molti di più di quanto si creda), essa è troppo vile per essere accostata al lavoro di uno scrittore. Soprattutto perché contiene il germe dell’automatismo: chi possiede la tecnica sforna libri come se fossero prodotti.

Cosa c’è di vero? Di certo c’è il rischio di perdere lo sguardo nitido e caldo, dopo alcuni anni di mestiere. Ma è un rischio che esiste in ogni pratica che viene ripetuta con costanza ogni giorno.

Provo a fare chiarezza, ma non è detto che ci riesca sul serio.
Con il termine “tecnica” non mi riferisco a:

“Prendo questo argomento di cui parlano tutti, e ci faccio sopra un romanzo. C’è un lui, una lei femme fatale, il cattivo di turno che ordisce il complotto, una minaccia planetaria…”.

Il metodo di lavoro di molti scrittori di successo non si discosta da questa traccia. E occorre riconoscere una straordinaria abilità nel riuscire a confezionare un prodotto convincente. Per intreccio e qualità della scrittura.
Ma.

Secondo me la tecnica è scrivere qualcosa di valore, che può anche essere ignorato dal grande pubblico. E riscoperto tra diciamo cinquantasei anni.

È scrivere qualcosa di efficace, perché il punto di vista isola e osserva fatti e persone, non marionette al servizio della propria idea. Significa fare del proprio meglio per rendere la scrittura potente e sobria, eppure capace di far scorgere una speranza, una bellezza, là dietro, da qualche parte.

Non è ancora chiaro vero?A parer mio in questo bistrattato termine ci sono sia la scelta del “materiale” (le storie), che gli strumenti per modellarlo e infine renderlo nostro e di tutti. È qualcosa di personale, e per renderlo capace di sfidare gli anni, non esiste strategia che possa essere copiata o importata. La tecnica è la nostra voce, unica.

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog