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Abd Allāh bin ʿAbd al-ʿAzīz Āl Saʿūd, più noto come re Abdullah, il sovrano dell’Arabia Saudita, è morto ieri alla (probabile) età di 91 anni. Era malato da tempo (non ci sono certezze, ma si sarebbe trattato di un cancro, forse ai polmoni).
Abdullah era considerato un riformatore ─ affermazione da prendere con peso relativo e uno spesso strato di contestualizzazione. Ricorda Ugo Tramballi sul Sole 24 Ore, che «ha dato alle donne il diritto di voto alle elezioni municipali che si svolgeranno a data da destinarsi. Ha aperto loro la Shura, il parlamento consultivo, non eletto e dai poteri limitati; ha cambiato i programmi di studio, sottraendone il controllo al clero wahabita; ha costruito università e nuove città; ha proposto una pace a Israele, il “Piano Abdullah”, che a Gerusalemme hanno ignorato». Ha “aperto” internet (sono 18 milioni i “navigatori” sauditi), rispettando ─ sempre in modo relativo ─ anche parte del dissenso: mullah Salman al-Odah ha 2,6 milioni di follower su Twitter, e quotidianamente cinguetta richieste su riforme democratiche; ad al-Mujtahidd, “Lo Studioso”, anche lui misterioso personaggio di Twitter, è permesso denunciare quotidianamente la corruzione nella casa reale senza che l’account venga (altrettanto misteriosamente) oscurato.
Chi segue le questioni saudite, sostiene che il passaggio di testimone al fratellastro, il principe ereditario Salman Abdul Aziz al Saud (un ritratto, su Formiche di Rossana Miranda), dovrebbe avvenire in modo fluido ─ tradotto, niente faide interne, cosa comunque non del tutto scontata. È comprensibile come all’interno dell’ipertrofica famiglia composta da 5 mila principi, esista un’ampia e naturale diversità di vedute: c’è chi vive a Londra tra gli attici di Sloane Street, chi ha studiato a Harvard, chi passa soldi sottobanco ai gruppi estremisti sunniti in giro per il mondo. Un Paese dove le dinamiche della Casa reale sono criptiche e complicate, e dove i vari dicasteri statali ─ dalle forze armate al petrolio ─ sono feudi di clan familiari.
In uno stato dove un abitante ogni mille è un principe, il settore privato non può che produrre soltanto il dieci per cento dei posti di lavoro. Sempre dal pezzo di Tramballi sul Sole: «La disoccupazione è al 12% ma è al 40 fra i sauditi di 20/24 anni. Se tre milioni twittano, altri tre vivono sotto la linea di povertà. Il Paese fa un tale consumo interno di petrolio che, secondo gli esperti, tra 25 anni incomincerà a importarne».
Già, il petrolio: l’oro nero, ciò che l’immaginario comune associa al pensiero di “saudita”. Ormai si è più o meno scoperto il gioco che Riad sta facendo sul prezzo in queste settimane: cercando di mantenerlo basso, continuando a spingere alti livelli di produzione, ha studiato a una sorta di stress test per il mercato dell’olio di scisto americano ─ e poco interessa ai principi, se mezzo mondo c’è finito in mezzo, e malamente.
Ma quella del greggio, sebbene sostanziale, è soltanto una delle questioni che si troverà davanti il nuovo sovrano. Terrorismo, Iran, e Yemen, sono grossi nodi geopolitici, dossier fluidi, in evoluzione, su cui l’Arabia è costretta a prendere posizione.
È noto che il terrorismo islamico sunnita, sia infuocato dalle posizioni radicali espresse, anche, dai chierici wahhabiti e dall’ideologia storica saudita. Il Regno si trova contemporaneamente esposto sia sul fronte dei fomentatori (e finanziatori) interni delle posizioni islamiche più radicali, sia su quello degli stessi militanti (combattenti) che vorrebbero punire il paese per non essere completamente aperto alle loro istanze e per le alleanze con “i diavoli” dell’Occidente (primi fra tutti gli americani).
Sullo sfondo l’Iran, che al di là della storica e mastodontica controversia sull’interpretazione dell’Islam, sunniti contro sciiti, è un elemento di forte pressione geopolitica nell’area. Teheran ha Arabia Saudita e Israele come nemici giurati (circostanza che ha pure riportato quiete tra Tel Aviv e Riad, nell’ottica del “il nemico del mio nemico è mio amico”). Gli iraniani non perdono occasione per poter colpire i sauditi. L’ultima, in ordine cronologico, la situazione in Yemen, paese fortemente legato alla sfera di influenza saudita, in preda a un’insurrezione civile da parte di un gruppo sciita, gli Houthi, che in molto sostengono sia ispirato e finanziato dall’Iran.
Adesso, in questa fase tremendamente instabile, si inserisce pure la morte di re Abdullah, con la conseguente successione al trono: la fluidità del passaggio di potere, più che la previsione degli analisti, in fondo rappresenta la speranza del mondo intero. In una regione già terribilmente instabile, ci mancano pure le faide interne a uno dei più importanti (e discutibili, sia chiaro) alleati occidentali.
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