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Il ricatto dei chierici

Creato il 31 gennaio 2012 da Albertocapece

Anna Lombroso per il Simplicissimus

Il ricatto dei chierici
Merkonti chiama così il nuovo abbinamento la Stampa in visibilio, ripresa ampiamente da chi si compiace dell’ammissione alla benevolenza della governante anche se si sconta con l’accondiscendenza ai suoi capricci elettorali.
Io sono faziosa e un po’ mi duole di compiacermi invece di Sarkozy, cui però va dato atto di aver sfidato il disappunto delle borse imponendo la tobin tax. Una delle promessa che un governo piuttosto sbrigativo e dedito alla rapida e spigliata decretazione, affida invece prudentemente al parlamento confidando forse in un rassicurante insuccesso.
Io mi stupisco sempre che gli osservatori più attenti, concordi sulla diagnosi, in possesso degli strumenti per immaginare ricette e soluzioni, soggiacciano miserevolmente al ricatto della necessità e dell’ineluttabilità, dimettendosi dall’esercizio della creatività, da quello della critica e infine da quello della responsabilità, che la delega è particolarmente gradita in tempi bui, così poi si può dire io non c’ero, io non sapevo, è colpa di qualcun altro.

Si sa che questa crisi è stata innescata dal collasso dei debiti del settore immobiliare in America che ha travolto i mercati mondiali, quando formidabili masse di capitali affluirono nei paesi poveri suscitandovi imponenti processi di sviluppo soggetti a improvvisi e devastanti deflussi. Nei paesi ricchi quella decisione provocò invece una vera e propria mutazione del capitalismo: la ricerca del massimo profitto nel minimo tempo ha segnato il sopravvento delle attività finanziarie e speculative sulla produzione reale. Il rallentamento della crescita e uno spostamento dei redditi dal settore reale a quello finanziario ha contribuito ad un aumento vertiginoso delle diseguaglianze. Ed anche a veri e propri “colpi di stato” da parte dell’economia che ha tolto sovranità a governi e a una “politica” poco autorevole e sempre meno capace.
In Europa in particolare l’eclissi della politica vede coincidenti l’abdicazione dei singoli Stati e della Regione, in assenza, nell’edificazione dell’Unione Monetaria, di un quadro di politiche fiscali e monetarie coordinate intente alla crescita, alla piena occupazione, all’equilibrio commerciale fra gli stati membri, e a una maggiore equità distributiva nei paesi e fra i paesi.
La mancata iscrizione tra i compiti della Banca Centrale Europea del tradizionale ruolo di prestatore di ultima istanza nei confronti dei debiti sovrani ha esposto a una vera aggressione i titoli del debito dei partner più vulnerabili. Le misure di restrizione dei bilanci pubblici che vengono richieste in cambio di quegli aiuti hanno aggravato la recessione e la stessa crisi finanziaria nei paesi beneficiari.
La grande crisi che aveva anticipata l’attuale, quella degli anni Trenta, era stata superata paradossalmente grazie alla seconda guerra mondiale. Ma anche, immediatamente prima e immediatamente dopo di quella, a un decisivo spostamento dalla guida privata alla guida politica dell’economia.

Invece, quella nuova e altrettanto devastante crisi si vorrebbe fronteggiare rifinanziando i soggetti che l’hanno promossa: banche e intermediari finanziari, con l’effetto di farne pagare dai lavoratori rimasti senza lavoro e dai contribuenti, incrementando il disavanzi pubblici e reagendo con severe misure di taglio delle spese sociali. E con ancora più drastiche mutilazioni dei diritti. Assolutamente, come ricorda oggi il Simplicissimus, inspiegabili e ingiustificabili nel quadro di un rilancio dell’economia. Se perfino direttore della ricerca del Fondo Monetario Internazionale, rileva che «le differenze nei regimi di protezione dell’impiego appaiono largamente non correlate alle differenze tra i tassi di disoccupazione dei vari paesi». A conferma che non è suffragata dai fatti l’ipotesi che la maggiore precarizzazione del lavoro implichi maggior crescita economica e minore disoccupazione.

Ieri un amico commentandomi mi rimproverava di essere sconsolata e accorata. Ma di non opporre alla necessità una alternativa. Non sono né sconsolata ne’ accorata, semmai incollerita dall’impotenza della sinistra a disegnare qualcosa di diverso e altrettanto potente della consegna alla forma più avida irrazionale e immorale di capitalismo.
Eppure Occupy Wall Street (Ows), le primavere arabe, gli indignados hanno fatto molto per cambiare le parole delle quali è fatto il discorso dominante a livello mondiale, spostandolo dai mantra ideologici del neoliberismo verso temi come l’ineguaglianza, l’ingiustizia e la decolonizzazione, perché il sistema in cui viviamo non venga più visto come una inevitabile fatalità.
Invece di discettare su spread, borse, finanza riconoscendo il loro primato, sarebbe ora di cercare e trovare le idee per approfittare della crisi per mettere in atto trasformazione politica. in tutto il pianeta dove le forze di centrodestra dominano ancora circa la metà della popolazione del mondo, o almeno di coloro che in qualche modo sono politicamente attivi. E qui, dove un governo, dichiaratamente e esplicitamente, si colloca nel solco ideologico e operativo del precedente, responsabile di averci trascinato nel baratro. Qui dove i partiti di centrosinistra innamorati del pragmatismo, hanno scelto un “entrismo” poco responsabile che delega le decisioni strategiche, preoccupato di stare “dentro”, al parlamento, al sistema, al capitalismo, perfino alla Germania.

Ma l’alternativa c’è eccome. Nessuno pensa di far fallire la California che pure ha un debito doppio rispetto all’Italia. Il che significa che l’Europa deve sottrarsi ai ricatti fuori e dentro le sue fragili mura. La strategia dell’implacabile rigore, applicata dal governo americano negli anni Venti, ha precipitato il capitalismo nella più rovinosa delle sue crisi e la Germania dovrebbe ricordare inoltre come quel rigore, applicato con feroce stoltezza alla Repubblica di Weimar, abbia contribuito a spingere il Paese nel nazismo.
Non possiamo confidare troppo sulla probabilità che i propositi di ortodosso rigore siano seguiti, con l’avanzamento della crisi, da più realistici e transigenti accomodamenti. Il ritardo rende inutili anche le più encomiabili azioni.

L’Ue deve, anche al di là delle sue intenzioni, promuovere la formazione di un livello di sovranità superiore a quello della somma (o della sottrazione?) degli Stati nazionali. E un governo economico dell’Europa degno di questo nome, anziché infierire sadicamente sui governi in corso di fallimento, deve rilanciare il cosiddetto Fondo Salva Stati in un ruolo di ”tesoro europeo” precursore di un vero bilancio federale. Deve riattribuire il ruolo necessario a una Bce sostenuta dal una solidale coalizione di Stati. Deve soprattutto finanziare progetti di investimento comuni miranti a promuovere la crescita. Come in Italia si sarebbe da subito perseguito l’obiettivo di un’imposta patrimoniale straordinaria accompagnata dal vincolo immediato del pareggio di bilancio e dalla utilizzazione del prelievo in un forte programma di investimenti e ricerca.
Certo viviamo davvero un terribile crisi, economica e della ragione, se misure così semplici, così ovvie, così banali hanno assunto le nobili e impraticabili fattezze dell’utopia.


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