“L’obiettivo del riconoscimento svedese è di contribuire ad un futuro nel quale Israele e Palestina possano vivere fianco a fianco in pace e sicurezza. Vogliamo contribuire alla creazione di maggiore speranza e fiducia nel futuro tra giovani palestinesi ed israeliani che altrimenti correrebbero il rischio di credere che non c’è alternativa alla situazione attuale”. Con queste parole, il 30 ottobre 2014, il ministro degli esteri svedese Margot Wallström ha accompagnato la decisione di Stoccolma relativa al riconoscimento dello Stato della Palestina. Si tratta del primo esecutivo europeo, membro dell’Unione Europea, che riconosce la statualità della Palestina. A latere, il governo ha annunciato l’adozione di una strategia di sostegno allo state-building palestinese che nei prossimi cinque anni prevede un incremento degli aiuti bilaterali da 500 milioni di corone svedesi (circa 53 milioni di euro) a 1,5 miliardi (poco più di 162 milioni di euro).
Il 13 ottobre è stata la volta della Camera dei Comuni britannica che ha approvato, con una forte mobilitazione laburista ed a larga maggioranza (274 a 12), una mozione non vincolante che chiede al governo conservatore di David Cameron di riconoscere lo Stato di Palestina. Il carattere non vincolante dell’atto pone chiaramente l’attuale governo inglese in una posizione di assoluta libertà, ma chissà che gli scenari in tal senso non possano cambiare dopo le elezioni in programma nella primavera del prossimo anno. La statualità palestinese è stata certificata poi dai parlamenti spagnolo, irlandese, francese e dallo stesso parlamento di Strasburgo. Lo stallo del fronte politico-diplomatico sul conflitto, dunque, pare essere sollecitato, con prospettive ancora da verificare, dal recente dibattito in seno a diversi parlamenti del vecchio continente. Con l’UE chiamata da più parti ad esercitare un ruolo più efficace al tavolo dei negoziati, forte della tradizione che si fonda sulla Dichiarazione di Venezia del 1980. Atto, quest’ultimo, in cui l’Europa, attirandosi le accese critiche dell’allora primo ministro israeliano Menachem Begin, dichiarò il proprio sostegno al principio di autodeterminazione del popolo palestinese ed il riconoscimento dell’OLP quale legittimo rappresentante dei Palestinesi.
Dal punto di vista del diritto internazionale, l’istituto del riconoscimento ha scarsa rilevanza giuridica. Esso attiene principalmente alla sfera politica delle relazioni tra Stati. Il primo requisito in presenza del quale una comunità territoriale diviene, in modo automatico, soggetto internazionale è, in primo luogo, quello dell’effettività del potere di governo su una certa comunità. In base a tale criterio è da negarsi, ad esempio, la soggettività internazionale ai governi in esilio. Una sentenza della Cassazione (n. 1981 del 1985) ha sostenuto sulla stessa linea che l’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) e tutti gli altri movimenti di liberazione godevano di una soggettività limitata allo scopo di “discutere, su basi di perfetta parità con gli Stati territoriali, i modi ed i tempi dell’autodeterminazione dei popoli da loro politicamente controllati, in applicazione del principio di autodeterminazione dei popoli ritenuto norma consuetudinaria di carattere cogente”.
Un altro requisito da considerarsi necessario ai fini della soggettività è quello dell’indipendenza (o sovranità esterna), ossia quando si è in presenza di un ordinamento che sia originario, che tragga forza giuridica da una propria costituzione e non da un ordinamento di un altro stato. Sempre restando in uno spettro di analisi squisitamente giuridico, gran parte della dottrina è concorde nel ritenere assai dubbia la soggettività della Palestina. Scetticismo che coinvolge la stessa natura degli accordi siglati, da Oslo in poi, tra rappresentanti palestinesi e Israele, i quali si possono difficilmente ricondurre a veri e propri accordi internazionali e che più verosimilmente richiamano le intese concluse dalle potenze coloniali con i rappresentanti delle popolazioni locali, all’epoca della decolonizzazione. Si tratta di accordi che non sono stati nemmeno registrati presso il Segretariato delle Nazioni Unite.
Di riconoscimento e non solo si è parlato alla SIOI (Società Italiana delle Organizzazioni Internazionali) in una conferenza del 20 gennaio dal titolo The Palestine and the Way of Peace, alla quale ha partecipato, oltre all’ex ministro degli esteri Franco Frattini, Nabil Shaat, membro del comitato centrale e responsabile delle relazioni internazionali di Fatah, alla presenza dell’ambasciatrice palestinese a Roma, Mai Al Kaila. Con un passato accademico presso l’università della Pennsylvania, Shaat ha ricoperto diverse cariche nel gabinetto dell’ANP (Autorità Nazionale Palestinese): da ministro per la cooperazione internazionale a titolare del dicastero della programmazione fino a primo ministro pro tempore. Una testimonianza autorevole per fare il punto sul processo di pace e le prospettive future: «Il ventaglio di soluzioni che oggi è offerto si può ricondurre, in primo luogo, alla soluzione dello stato bi-nazionale alla stregua, con le dovute differenze, di quanto accaduto in Sud Africa. Dall’altro, c’è la soluzione dei due stati per due popoli. Due stati – precisa il politico palestinese – dotati di una reale indipendenza e sovranità». A tal fine, secondo Shaat, è necessario archiviare definitivamente un modello di “gestione della crisi” che è funzionale esclusivamente agli interessi israeliani: «Ciò ha favorito il mantenimento dello status quo, dell’occupazione, della crescita vertiginosa degli insediamenti, dell’isolamento e della distruzione di Gaza, degli Stati Uniti come unico mediatore, il pieno controllo israeliano dell’economia palestinese. Dobbiamo sancire la fine di questo approccio».
Quali sviluppi allora? Shaat al riguardo sottolinea: «Non torneremo al tavolo dei negoziati senza il riconoscimento di una Palestina e senza una precisa deadline. Inoltre, nonostante la critica situazione nei territori occupati, è necessario che il principio del rifiuto non violento dell’occupazione sia davvero l’unica opzione». Un tema cruciale, anche in virtù del recente dibattito sul riconoscimento, è il ruolo dell’Unione Europea. «Bisogna rendere concreta – afferma Shaat – la prospettiva di una reale partecipazione dell’UE come partner nel processo di pace. L’Europa deve acquisire un ruolo importante. La stessa Italia deve svolgere un ruolo trainante in ambito continentale su questo versante, forte dei legami che tradizionalmente la legano alla regione, in riferimento ai quali la condotta del contingente italiano durante la guerra civile in Libano ne rappresenta un fulgido esempio». Interessanti, infine, le parole spese dal dirigente palestinese sulla riconciliazione con Hamas: «Alla base dell’accordo che stiamo cercando con Hamas c’è il desiderio di unire i palestinesi di Gaza e quelli della Cisgiordania. Hamas è un’organizzazione che agisce esclusivamente in Palestina, piuttosto radicata sul territorio, che ha mostrato uno spirito disponibile ai negoziati. Certo che ci sono delle differenze tra noi e loro, ma non sono poi così distanti dalle differenze che esistono nella dialettica partitica europea ed occidentale».
L’importanza di rilanciare i negoziati e dell’esercizio di un peso politico maggiore della diplomazia europea nel processo di pace sono stati, il giorno successivo, tra i temi al centro di un altro momento di riflessione, questa volta organizzato da alcuni parlamentari socialisti, tra i quali gli onorevoli Pia Locatelli e Marco Di Lello, presso la Camera dei Deputati (Sala del Mappamondo), proprio contestualmente alla discussione in aula relativa alla mozione sul riconoscimento della Palestina, della quale proprio la componente del PSI-PLI (Gruppo Misto) in Parlamento si è fatta promotrice. Alla conferenza, dal titolo Due Popoli. Due Stati. La Pace, hanno preso parte, oltre, di nuovo, a Nabil Shaat ed al moderatore, il giornalista Alberto La Volpe, anche Abdullah Abdullah, a capo del comitato politico del consiglio legislativo palestinese, Alon Liel, diplomatico israeliano, la docente universitaria e membro dell’esecutivo del partito Meretz, Ester Levanon Mordoch.
Mentre Nabil Shaat ha ribadito come «il riconoscimento costituisce una premessa imprescindibile per la costituzione di due Stati, due veri Stati», Abdullah ha tenuto ad invitare l’Italia, in vista della discussione sul riconoscimento, a «proseguire la marcia verso la giustizia», chiamando in causa la politica dell’UE, «per creare un Medio Oriente stabile e quindi funzionale agli interessi europei». Ricco di spunti di riflessione l’intervento di Alon Liel, che presenta nell’occasione un’iniziativa proveniente dalla stessa società civile israeliana, in particolare dal mondo della cultura, della politica, dell’arte e dello spettacolo. Una petizione firmata da circa mille intellettuali (tra cui Amos Oz, David Grossman, circa 250 professori universitari) che spinge per il riconoscimento dello Stato di Palestina, a fianco di quello di Israele sulla base dei confini antecedenti la Guerra dei sei giorni del 1967. «Perchè solo una soluzione del genere – sostiene Liel, già ambasciatore di Israele – che preveda la formazione di due Stati può davvero funzionare. L’opzione bi-nazionale escluderebbe alla radice la prospettiva, voluta dall’establishment israeliano, della formazione di uno “Jewish state”. Un’opzione che quindi non potrebbe essere democratica. Non c’è altra soluzione che dividere. Non vogliamo controllare la vita di sei milioni di palestinesi». Poi sull’Italia e sul ruolo dell’Europa: «Come mai negli anni Ottanta l’Europa è riuscita a porre fine all’apartheid? Oggi potete avere la vostra occasione. Avete una posizione morale di cui potete avvalervi. Potete recitare un ruolo che non sia subalterno rispetto agli Stati Uniti».
Un diffuso riconoscimento dello Stato della Palestina da parte dei paesi dell’Unione Europea costituirebbe una legittimazione importante per le azioni della leadership palestinese, soprattutto dopo l’attribuzione dello status di osservatore non membro da parte dell’ONU nel novembre 2012. Uno sviluppo che ha permesso a Mahmoud Abbas di firmare, lo scorso mese di aprile, le lettere di accesso a quindici trattati multilaterali e convenzioni, tra cui le quattro Convenzioni di Ginevra del 12 Agosto 1949 e il primo protocollo aggiuntivo. Il 7 gennaio, infine, il segretario generale dell’ONU Ban Ki Moon ha annunciato che la Palestina accederà alla Corte Penale Internazionale il 1 aprile. Ciò permetterà ai palestinesi di perseguire presso il tribunale dell’Aia le accuse di crimini di guerra nei confronti di Israele.