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Il rischio default e l’Unione Eurasiatica: dietro la crisi ucraina

Creato il 14 febbraio 2014 da Bloglobal @bloglobal_opi

ucraina.ue-russia

di Annalisa Boccalon

Pochi giorni prima del Vertice di Vilnius del 28 e 29 novembre, il Presidente ucraino Viktor Yanukovich si è rifiutato di sottoscrivere l’Accordo di Associazione (ASA) con l’Unione Europea, i cui negoziati erano cominciati circa cinque anni fa nell’ambito del Partenariato Orientale, il programma che, nato nel quadro della Politica europea di Vicinato, è stato lanciato nel 2009 con lo scopo di favorire l’avvicinamento delle sei ex Repubbliche della CSI (Armenia, Bielorussia, Azerbaijan, Moldavia, Georgia e, appunto, Ucraina) all’UE.  L’improvviso ripensamento da parte del Presidente ucraino ha fatto arenare un ambizioso progetto di associazione, che, pur non essendo un’adesione all’UE, ne avrebbe sicuramente rappresentato l’anticamera. Georgia e Moldavia, invece, non hanno desistito dalla prospettiva di sottoscrivere quello stesso accordo, ma, d’altronde, la scelta di campo europeista compiuta da questi due Stati non è una novità recente.  Tuttavia, il vero asso nella manica che l’UE avrebbe acquisito con la firma dell’accordo di Vilnius era proprio l’Ucraina: con i suoi 46 milioni di abitanti, il “granaio d’Europa” avrebbe costituito, all’apparenza, un’interessante opportunità economica, oltre che energetica, per gli investitori europei.

Il rifiuto di Yanukovich –La firma degli accordi di Vilnius rappresenta per noi quello che la caduta del Muro di Berlino ha rappresentato per la Germania 24 anni fa”, affermava il Rappresentante Permanente di Ucraina presso l’Unione Europea, Konstantyn Yelisieiev, alla vigilia della firma degli accordi. L’entusiasmo che lasciava trapelare l’alto diplomatico a quanto pare non aveva toccato Yanukovich che, con la scelta di non procedere, non solo sembra aver spiazzato buona parte delle cancellerie europee, molte delle quali avevano superato le proprie resistenze a negoziare con gli Stati dell’ex CSI, ma ha anche scatenato rivolte di piazza come in Ucraina non se ne vedevano dalla Rivoluzione Arancione del 2004. L’oggetto delle proteste è stato ancora una volta Yanukovich, questa volta sotto accusa non per aver falsato il risultato delle elezioni presidenziali, ma per aver negato al Paese l’opportunità di una svolta ad Ovest.

Chi offre di più? – Occorre chiedersi, dunque, cosa abbia condotto il Presidente ucraino a rinunciare all’ASA. Senza dubbio la Russia di Vladimir Putin ha svolto un ruolo cruciale nel diniego di Yanukovich, ma in quali termini? Mosca ha semplicemente offerto di più rispetto a Bruxelles. La creazione di una zona di libero scambio tra l’Ucraina e l’UE, con conseguente accesso per la prima ad un mercato costituito da 360 milioni di individui, non sarebbe stata priva di sacrifici e sforzi da parte di Kiev. L’Ucraina, infatti, sottoscrivendo l’accordo, avrebbe dovuto dare una sferzata vigorosa al proprio sistema economico, politico, infrastrutturale, alle proprie politiche di concorrenza. Tutto questo avrebbe avuto un costo, quantificato dall’Ucraina in 27,5 miliardi di euro, cifra richiesta dai negoziatori ucraini all’UE per l’adeguamento del Paese agli standard economici europei, che non ha incontrato la disponibilità di Bruxelles. Ovviamente oggi l’UE, di fronte alla crisi dell’eurozona e a quella di buona parte dei Paesi mediterranei ancora in uno stato di recessione, non può permettersi di sobbarcarsi anche le necessità di ammodernamento infrastrutturale, normativo, industriale dell’Ucraina. Anche per affinità storico-culturali, chi può assumersi tale impegno è, invece, la Russia.

La Russia e l’arma economica – L’arma economica è stata utilizzata dalla Russia con perspicacia, ben prima del Vertice di Vilnius. Già nell’estate del 2013 il Cremlino aveva intrapreso una campagna di rappresaglia economica attraverso il boicottaggio delle merci ucraine, a cominciare dal cioccolato: Rospotrebnadzor, l’Agenzia federale russa per la protezione dei consumatori, aveva infatti annunciato di aver rilevato sostanze cancerogene in alcuni prodotti dolciari dell’azienda ucraina Roshen, imponendo così il divieto di importazione su tutto il territorio della Federazione. Se si considera che il proprietario della Roshen, Petro Poroshenko, è un ex sostenitore della Rivoluzione Arancione al fianco di Yulia Timoshenko e di Victor Yushchenko, nonché Ministro dell’ex governo di Mikola Azarov, e che l’azienda esporta dolci in Russia per un valore di 200 milioni di euro all’anno, si comprende il perché di tale ritorsione economica da parte di Mosca, che nel corso dei mesi ha paventato un blocco delle merci anche per il settore dell’acciaieria e del vetro. Nel complesso, gli scambi commerciali tra Russia e Ucraina nel 2013 sono diminuiti del 25%. Questa misura rappresentava evidentemente già un primo monito da parte russa verso l’Ucraina, che non avrebbe potuto che inasprirsi, laddove Kiev avesse ratificato l’accordo con l’UE.

La Russia ha peraltro messo sul piatto un taglio dei prezzi del gas del 30% immediato e crediti per un totale di 15 miliardi di dollari, anch’essi immediati. Altro elemento di non poco conto, Putin ha assicurato il supporto politico a Yanukovich in vista delle elezioni presidenziali del 2015. Nel momento in cui l’Ucraina ha scelto di non proseguire lungo il cammino verso Bruxelles, Yanukovich è stato ricompensato con quanto Putin gli aveva prospettato. La leva economica sembra esser stata nuovamente utilizzata dalla Russia quando il Primo Ministro ucraino Azarov a fine gennaio si è dimesso e lo stesso Presidente è arrivato al punto di offrire all’opposizione la possibilità di formare un governo, proposta poi rifiutata da queste ultime. In quella circostanza sembra che la tranche di aiuti russi sia stata congelata.

La bolletta energetica e il rischio default – Ma l’aspetto più complesso è, inevitabilmente, quello riguardante l’energia. La situazione finanziaria nella quale versa l’Ucraina, in piena recessione da almeno un anno, origina da un contratto energetico capestro, di durata decennale, stipulato nel 2009 con la Russia e che l’ha portata, paradossalmente, ad essere il Paese europeo che paga le forniture energetiche più di ogni altro. I ripetuti tentativi di negoziazione di un prezzo più favorevole per Kiev non hanno comunque condotto ad un risanamento della situazione. Ad oggi, i consumatori ucraini pagano il 20% delle spese sostenute dallo Stato per acquistare il gas dalla Russia, mentre il restante 80% è suddiviso tra le casse dello Stato e quelle dell’azienda energetica nazionale Naftogaz Ukrainyi.

La Banca Centrale ucraina ha dunque cercato di sostenere la valuta nazionale, arrivando a spendere, secondo alcune stime, circa 800 milioni di dollari, erodendo le riserve valutarie nazionali. Questo stato di cose, assieme alla totale mancanza di riforme strutturali negli ultimi dieci anni almeno, ha provocato una grande diffidenza da parte dei mercati finanziari a prestare denaro all’Ucraina, al punto che oggi essa paga un tasso d’interesse pari all’8%. Una valuta così forte ha portato inevitabilmente a facilitare le importazioni, in particolare quelle di gas, mentre ha provocato una profonda recessione nelle esportazioni, in particolare nel settore dell’acciaio.

Nel 2014, il Paese dovrà riuscire a rifinanziare i 7 miliardi di dollari di debito estero, gran parte dei quali in mano al Fondo Monetario Internazionale. Dunque, i 15 miliardi di dollari arrivati da Mosca hanno rappresentato una boccata di ossigeno notevole: in altre parole, hanno impedito il default ucraino. A pesare sul quadro economico-finanziario vi sono anche criticità dal punto di vista politico-amministrativo che fanno dell’Ucraina uno dei Paesi con il più alto tasso di corruzione al mondo: secondo l’indice elaborato da Transparency International, essa si colloca 144esima su 177 Paesi monitorati nel 2013, con un punteggio di 25/100 in fatto di trasparenza.

Un unico spazio da Lisbona a Vladivostok – Lo spazio post-sovietico, che include Bielorussia, Ucraina, Moldavia e i tre Stati del Caucaso, resta una zona altamente strategica su cui l’UE punta, tra le altre cose, sia per favorire la propria diversificazione energetica sia per proiettarsi verso i mercati asiatici sia, infine, per garantire la sicurezza dei propri confini orientali. Allo stesso tempo tale regione costituisce un anello fondamentale per le strategie politiche ed economiche di Mosca.  Nata ufficialmente nel 2011, l’Unione Doganale euroasiatica attualmente include Russia, Kazakhstan e Bielorussia, ma, nell’ottica di Vladimir Putin, è destinata ad ampliarsi e a completarsi entro il 2015, inglobando, innanzitutto, l’Ucraina. Proprio nel corso dei prossimi mesi è atteso, tra l’altro, che l’Armenia concluda un accordo sulla partecipazione a tutti gli effetti a tale Unione. Si tratterebbe, dunque, di ricreare uno spazio comune su cui Mosca può tornare ad esercitare la propria influenza rispondendo così alla perdita del ruolo centrale a livello regionale ed internazionale a seguito del dissolvimento dell’Unione Sovietica. Per tale ragione questo progetto non può non contemplare anche l’Ucraina. Il fatto che il Cremlino abbia a cuore l’Unione Doganale non è un mistero: Putin lo ha rimarcato da ultimo nel vertice UE-Russia tenutosi lo scorso 28 gennaio a Bruxelles, dove è tornato a proporre l’idea, da lui stesso lanciata nel 2010, di una grande area di libero scambio, da Lisbona a Vladivostok, che unisca, quindi, sia l’UE che la futura Unione Economica Euroasiatica, l’altro braccio della strategia putiniana. Il progetto dell’Unione Doganale incontra critiche da parte dell’UE in quanto, come spiegato da alcune fonti diplomatiche europee, non è un sistema concorrenziale, trasparente e basato sul libero mercato come prevede la disciplina internazionale prevista dal WTO a cui la Russia ha aderito nell’estate del 2012. Da allora, tra l’altro, Mosca ha intrapreso una politica protezionista, che rende poco credibile l’intento di Putin di creare un grande mercato unico da Lisbona a Vladivostok.

Le presidenziali 2015, unica via di uscita – Nella vicenda della crisi ucraina è evidente, dunque, che non solo la Russia ha offerto di più, ma che ha anche sostanziato la propria offerta in termini immediati, mentre i vantaggi che deriverebbero da un accordo con l’UE sarebbero stati visibili e apprezzabili solo nel medio-lungo termine, e ciò, inoltre, dopo aver compiuto non pochi sacrifici sul piano economico oltre che su quello politico (si pensi alla richiesta di rilascio di Yulia Timoshenko). Alla luce dei legami storici, culturali, etnici, linguistici, economici tra i due Paesi, e alla luce dell’importanza geopolitica che l’Ucraina riveste per la Russia, non c’è da stupirsi, che quest’ultima si intervenuta tanto attivamente. Considerando il complesso quadro economico e finanziario di Kiev, la mancata firma dell’ASA potrebbe paradossalmente non rappresentare completamente uno svantaggio per Bruxelles. Resta invece da capire quanto sia convenuto all’Ucraina. Sul piano finanziario, aver ottenuto 15 miliardi di dollari da Mosca sembrerebbe essere stato provvidenziale, almeno nel breve termine; sul piano politico ed economico, non aver scelto di perseguire il modello europeo ed essersi rivolti nuovamente ad Est potrebbe portare l’Ucraina a dipendere eccessivamente dalla Russia e, indirettamente, dalle sue aziende di Stato, ad iniziare da Gazprom. Tale scelta ha infine deluso una parte dell’opinione pubblica, che si aspetta dalla classe politica le riforme attese da più di un decennio.

I sondaggi di opinione condotti dall’Istituto di ricerche Sotsis e dall’Istituto internazionale di sociologia di Kiev mostrano come resti elevato il numero di coloro che supportano le manifestazioni anti-governative (47%), mentre il 46,1% è contrario; ben il 63,3% sostiene infine che si possa raggiungere un compromesso politico. Non va sottovalutata questa significativa spaccatura sociale, che dimostra come il Paese resti ancora fortemente diviso sulle proprie prospettive future. Se a ciò si aggiunge che la ricchezza statale (circa la metà del PIL) è detenuta da un numero esiguo di oligarchi russofoni, le cui attività si svolgono prevalentemente nelle aree orientali, è chiaro che l’attuale crisi politico-istituzionale va ben oltre la mancata firma dell’ASA.

Se è vero che resta aperto il dibattito in sede europea sull’opportunità di seguire l’esempio degli USA, che già a fine gennaio hanno congelato gli assets finanziari degli oligarchi ucraini e hanno interrotto l’emissione di visti a coloro che sono sospettati d’aver avuto un ruolo attivo nella repressione delle violenze, è anche vero che l’UE non deve né può interferire sulle vicende interne ucraine se non vuole rendere ancora più tesi i rapporti con il partner/competitor russo.

L’unica plausibile via di uscita da questa impasse potrebbe essere rappresentata dalle prossime elezioni presidenziali, previste per il 2015, le quali, qualora dovessero decretare la fine di Yanukovich (a meno che ciò non avvenga prima), potrebbero permettere all’UE di riaprire il “dossier Ucraina”. Senza dubbio, però, Bruxelles è chiamata a vigilare con assoluta serietà sulla prossima tornata elettorale: la sua credibilità si misurerà anche dalle capacità di soft power che sarà in grado di dimostrare in questo ambito, pena la perdita della fiducia che in essa ripone quanti da mesi manifestano in Piazza Maidan.

Annalisa Boccalon è Dottoressa in Scienze Internazionali e Diplomatiche (Università di Trieste)

Photo credits: EPA/Zurab Kurtsikidze

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