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Il Risoul, la polvere e il nostro vento da seguire.

Creato il 21 luglio 2014 da Emialzosuipedali @MiriamTerruzzi

La strada che porta su al Risoul è una mulattiera. L’altra, non quella che faranno i ciclisti, quella che hanno aperto per il pubblico, per le macchine che portano le targhe di nazionalità tutte diverse. E’ una strada che forse per la prima volta nella sua vita vede così tanto movimento. Una capra, nel prato, mastica senza far caso alle auto che si aggrappano all’asfalto di quella strada stretta che, per l’ultimo tratto, è sterrata quasi come un sentiero. E’ presto, sono solo le undici. Ci vorranno più di sei ore perché la corsa arrivi quassù, dove le case e gli alberghi sono tutti fatti di legno e si affacciano sugli impianti sciistici che, senza neve, sembrano un po’ dei grossi scheletri addormentati nel verde frizzante dell’estate. Eppure la gente ha già montato le sedie da campeggio attorno alle transenne dell’arrivo. Presidiano quel posto prezioso con cappellini gialli in testa e il giornale del Tour in mano. Leggono anche se forse sanno già tutto. Per i francesi il Tour de France è come una festa nazionale che dura tre settimane. C’è un amore viscerale che si assapora dagli sguardi, dai nomi dei loro corridori sciorinati come un rosario, forse persino dal loro modo di stare sulla strada.
Tour de France 2014_ Risoul
Io scelgo di andare giù, verso l’ultimo chilometro, dove cominciano a vedersi i camper e si sente profumo di pastasciutta al sugo e forse anche di carne alla griglia. La gente sale in bicicletta e a piedi, porta bandiere, ce ne sono tante italiane e sull’asfalto c’è disegnato lo squalo, simbolo universale di Vincenzo Nibali che tutto il mondo ha imparato a conoscere e ad amare. Scelgo una transenna. La mia transenna, quella alla quale mi appoggerò per le prossime cinque ore. Passa un gruppo di ragazzi avvolti nel tricolore francese, urlano una canzone e altri rispondono dai camper e poi alcuni tifosi che salgono con la bandiera Ceca, scrivono con lo spray il nome di Konig sull’asfalto. Un gruppo di olandesi li sta a guardare. Loro sono venuti fin qui per Bauke Mollema. Ma tra le loro parole che non capisco, ogni tanto, come un intercalare, spunta un “Nibali”. Anche loro aspettano la maglia gialla, anche loro vogliono bene a quel ragazzo che ha la dote dei campioni più amati: la semplicità. Chiudo gli occhi con la schiena appoggiata alla terra di questa montagna e sento le voci di chi sale, il rumore delle biciclette, tutte diverse. “Non si vede la gloria, se non si pedala!” urla qualcuno al suo compagno di strada. Sì, è vero. E a volte non la vedono nemmeno quelli che pedalano. Bisogna pedalare forte e forse bisogna anche crederci più di tutto il resto. Ma cos’è la gloria, poi? Gli applausi per il primo non valgono quanto quelli per l’ultimo? Le salite se le bevono tutti fino alla fine, anche le più indigeste. Il ciclismo ha troppe sfaccettature per essere colto tutto in una volta. Si scoprono con il tempo. Con gli occhi chiusi si sente meglio o forse si è costretti a sentire quello che non possiamo vedere.
Scende qualche goccia di pioggia ma il sole rimane, assieme a quell’odore leggero dell’asfalto bagnato che non mi piace molto. Preferisco quello del lago o dell’erba tagliata.
Da un camper di italiani qualcuno vocifera che sono in fuga in quindici, tra di loro c’è Alessandro De Marchi che qui, sul Risoul, ha già vinto. Ci spera, anche se i traguardi che aspettano i corridori in cima alle montagne del Tour fanno gola a tanti. Per il resto, decide la strada, decidono le gambe. Piano piano la strada viene sgomberata, i ciclisti scavalcano le transenne con le loro biciclette e tutti, in silenzio, aspettano la carovana che, quando arriva, scuote la montagna con la sua festa. I gadget, la musica, i cappellini condiscono l’attesa. Poi, in lontananza, si sente il rumore delle pale dell’elicottero. Per noi che oramai siamo un po’ animali da strada è il segnale. Il silenzio, ora, è uguale a quello dei pini che ricoprono la schiena del Risoul. Infiniti pini verso il cielo, attorno alle sue rampe dove i tifosi hanno scritto come si fa nei luoghi speciali. Le incisioni, qui, sono fatte con lo spray o con la vernice bianca sull’asfalto nero. La testimonianza dell’amore che la gente ha per il ciclismo è anche in questo silenzio che è così intenso da sembrare palpabile. Tutti guardano verso la curva. Aspettano la macchina di inizio corsa, diventano impazienti d’improvviso. La macchina arriva. Pochi sanno chi c’è davanti, cercano di scorgere la sua figura tra le moto, hanno paura di non riconoscerlo. Sotto quella smorfia di fatica c’è il viso magro di Rafal Majka, venticinque anni e due occhi trasparenti che ora sono offuscati da quei chilometri in salita, dalla sopportazione del leggendario Izoard. E’ una maschera di sudore e di sofferenza. Eppure il Risoul gli sta facendo un regalo immenso. Ha scelto lui per la sua prima volta al Tour. Lui che da professionista aveva combattuto tanto, con così tanto cuore, e vinto mai. Sale tra il boato della folla sempre più intenso. Arriva Vincenzo. Ha addosso la maglia gialla e penso che quell’istante lo ricorderò sempre. Gli olandesi urlano, gridano, fino a che sparisce dietro la curva. Poi ci sono gli altri, la strada li restituisce ad uno ad uno oppure a piccoli gruppi. Quell’asfalto che sale ti resta nelle gambe, si mischia al sudore, al caldo, allo sforzo. Una signora francese applaude tutti e ai suoi connazionali grida: “Vive la France!”, spulcia la lista dei nomi, non ne perde uno. Nessuno si muove dalle transenne.
Tour de France 2014_ Risoul

Guardano quei ragazzi in bicicletta che si mettono a nudo così, che mostrano le loro facce stanche, sconvolte, indurite dai chilometri. E li amano. Li amano genuinamente, senza regole, perché sono veri, perché sopportano la fatica con dignità e con lo spirito che solo la bicicletta insegna. “La verità sta nelle sfumature” diceva Charles Bukowski. E quelle del ciclismo sono davvero infinite, come può essere l’umanità racchiusa tra l’inizio e il fine corsa. Bella, cattiva, invidiosa e generosa, piena di speranze e di delusione, continuamente in bilico tra cielo e asfalto.
Arrivano gli ultimi e noi li stiamo a guardare perché hanno lo stesso fascino dei primi. La beviamo anche noi, quella fatica. Ne abbiamo bisogno. Sono tutti belli, nelle rughe del loro sforzo hanno disegnato l’anima.

I tifosi riordinano gli zaini, rimettono le bandiere in spalla e risalgono il chilometro che li separa dalla vetta. E’ finita. Cinque o forse sei ore sono passate in un attimo. E’ sempre così, ogni volta. Seguo il flusso della gente che torna alle macchine mentre i pullman cominciano a scendere, nascondendo i ciclisti dietro i loro vetri scuri, e gli operai smontano le transenne, il palco, l’arrivo. Come zingari, domani saranno da un’altra parte, monteranno le stesse cose, da un luogo all’altro, come una festa, una sagra che gira di paese in paese. L’aria si fa un po’ più fresca e i pini diventano più scuri. Di nuovo, mentre scendo per quella specie di mulattiera, si solleva una gran polvere. Terra. Terra del Risoul. Di questo posto che è solo un luogo nel mondo eppure mi ha inciso dentro. E’ il destino di tutti i luoghi dove il ciclismo passa, anche solo per un momento. Diventano speciali e io un po’ mi innamoro.
Siamo polvere anche noi e scegliamo il nostro vento da seguire, quello che ci può trascinare ovunque. Io il mio l’ho scelto da un po’ e questa volta mi ha portato qui. Siamo polvere che si lascia condurre dal vento dell’anima. Sono polvere e il ciclismo è un vento troppo forte per farmi restare al posto che altri comandano. Questo è il mio posto. Ovunque ci sono queste emozioni da ascoltare, a volte ad occhi chiusi come le più belle. C’è ancora terra del Risoul sulla carrozzeria della macchina, senza voler essere sentimentale penso che ne prenderò un po’ e la conserverò. Per ricordarmi di questo giorno, di quel vento che è dentro di noi e va seguito. Ci porterà esattamente dove volevamo essere.

Tour de France 2014_ Risoul



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