Magazine Diario personale

Il rumore del pallone.

Creato il 07 luglio 2013 da Cristiana

In questa domenica alluvionata, vi regalo un racconto, scritto parecchi mesi fa. 

L’assenza di verde era un atto volontario, un crudele sciopero cromatico. Dentro quella mancanza un bimbo giocava a pallone: lo tirava contro un muro e poi di nuovo. Il rumore di rimbalzo della plastica dura sull’asfalto aveva lo stesso ritmo rarefatto di un campanile di campagna.

Dovevo prelevare un assassino, un atto di forza in cui di solito sono il punto fermo e a muoversi è chi viene condotto in carcere. Sono io che mi porto via qualcuno dai posti ed invece, appena sceso dalla macchina, fui abbandonato da una parte delle mie energie: persino da alcuni sogni che covavo fin da piccolo. Spegnendo la sigaretta sotto il tacco del mocassino avevo notato che non c’era nemmeno un esercizio commerciale a portata di occhi. I portici erano abitati dalle sole colonne, lapidi dello spazio. Le saracinesche nascondevano solo garage che contenevano probabilmente macchine. Una matrioska che restituiva una somma di vuoti. Un luogo dove non ti avrei portato per nulla al mondo, nemmeno per renderti tattili le mie parole.

Salii delle scale di marmo chiaro venato di un marrone chiaro che ricordava escrezioni umane. Mentre varcavo la soglia dell’appartamento,  evocato dall’odore del sangue mischiato ai resti del cervello del cadavere, ho immaginato il tuo corpo nudo. Il sangue colava lungo il bordo freddo di una televisione al plasma che prendeva mezza parete. Faccio ancora finta di esserci abituato. Prima o poi accadrà veramente.

La tv è senza audio, ma accesa. Dentro, sorridono.

Il corpo ingombrava il pavimento, scomposto. Lo scavalco.

L’omicida era seduto in cucina. Se ne stava crocefisso con la testa tra le mani e due carabinieri ai lati. Il Golgota era un appartamento al secondo piano di un palazzo tirato su negli anni ottanta. Probabilmente abusivo ed in seguito condonato. Un luogo improbabile per la vita, figuriamoci per una resurrezione.

Io sono il giudice. Ho 34 anni, un completo marrone comprato in saldo, la borsa nuova, di pelle scura, che mi hai regalato. La nostra casa è diversa da questa. Quando la vicina fa troppo rumore e io vorrei battere contro il soffitto, tu mi prendi il polso e mi distogli. I colori che abbiamo scelto, l’intensità delle luci fanno il resto.

“Mi racconti che cosa è successo per favore.” Mi sono seduto senza togliermi il cappotto, raccolto i lembi sul grembo. Precario, ho tolto l’orologio l’ho appoggiato sul tavolo, allineato al bordo del tavolo da un lato, l’altro puntato verso l’omicida.

“Gli ho sparato, l’ho già detto. Appena ha varcato la soglia di casa mia, come faceva sempre, bussando appena ed entrando senza aspettare. Là.” E lo indica.

Non mi giro. Ho la percezione della presenza del cadavere come ho quella del tuo corpo la notte. Quando ti alzi ti sento. Quando non ci sei precipito.

Dal fax striminzito che mi era arrivato sulla scrivania sapevo che il morto era l’autista di un consigliere regionale. L’assassino, suo amico d’infanzia, impiegato al comune. Tu avresti subito detto che, il secondo, era stato raccomandato dal primo. Io ti avrei risposto che la verità ha bisogno di prove, altrimenti non esiste.

“Ho bisogno di sapere perché lo ha fatto, l’ho capito che gli ha sparato. – il movimento della mia testa accenna al cadavere.

“E’ una lunga storia.”

Lo diceva anche mio padre – certe sere – seduto al bordo del mio letto e poi la cominciava, la storia, ed io mi addormentavo prima della fine. Se divento padre devo ripassare la fine delle storie. Credo di non averle mai ascoltate.

“Me la racconti.” A mio padre dicevo racconta e stringevo l’indice con tutte le dita.

“Questi palazzi sono stati costruiti su un luogo che si chiama Stagni. Ci sono gli stagni qui sotto e per pompare l’acqua ci sono le idrovore che canalizzano l’acqua nei fossi che vanno verso il mare. Ha visto che è pieno di fossi? Non si poteva mica costruire qui. Tutto il quartiere è stato condonato qualche anno fa.“

Un raggio di sole filtra dalla finestra. Uno degli appuntati ora è appoggiato al muro, accanto alla porta. Ha un’innaturale posizione immobile. Tra poco il sole comincerà a calare – è mezzogiorno – e il raggio salirà, forse lo colpirà nell’occhio e l’appuntato sarà costretto ad un movimento di scarto.

“Lei ha ammazzato il boss del quartiere questa mattina io voglio sapere perché, lasci stare i fossi. Ammetterà che l’evento rappresenta una rarità.”

“Mi posso alzare? Parlo meglio se cammino.”

Alzo il palmo della mano, con levità insofferente, come se con quel gesto dovessi attivare una leva e facendolo contribuissi a sollevarlo. Un gesto magnanimo. L’assassino si alza e comincia a parlare, leggermente ricurvo, le mani chiuse sullo schienale della sedia, i polpastrelli che si fanno bianchi intorno alle unghie, non nascondono la stretta.

Mi indica il piazzale asfaltato e con le parole mi porta indietro nel tempo quando era terra battuta e lui e Peppe Di Mezzo, il morto,  ci giocavano a pallone.

“Questa cicatrice me l’ha fatta Peppe, qui, sul gomito.”

Penso a te che una notte capiti sotto questi portici, da sola, stretta nel soprabito, il giornale consumato dalla lettura in metropolitana che sporge dalla borsa.

Si siede di nuovo, mi fissa lucido. Mi travolge di parole e fa dei movimenti con la mano destra che chiudono un cerchio. Poi si placa, tace e attende.

“L’ho ucciso perché non sono felice. E mi creda non è come uccidere per il colore di una cravatta che non si abbina con la camicia o per dei calzini bianchi sotto un vestito elegante.”

Non è abbastanza l’infelicità come movente, stavo per dire, ma non ho fiatato.

L’appuntato si porta una mano in viso, copre il raggio di sole che gli colpisce la retina.

“Portatelo via.” Dico. E resto in cucina a sentire i passi sulle scale che se ne vanno. Il cadavere che mi attrae come una ragnatela contro luce.

Ho il desiderio improvviso di una domenica mattina e di marmellata di arance.

E’ sera. Siamo a tavola e ti racconto tutto senza guardarti negli occhi.

 “Hai incontrato un ribelle. – dici – Come piacciono a te. In fondo prova a non dargli ragione.” Commenti tu raggruppando con il coltello le molliche dentro un quadratino della tovaglia.

“Io non gliela posso dare la ragione.” Ti ho risposto.

“Tu arrivi sempre dopo. – dici – Non sei arrivato quando non si poteva costruire sugli stagni. Quando hanno aperto la sala giochi dove i disperati del quartiere spendono gli spicci che si ritrovano nelle tasche. Quando la moglie mangiava merendine a gambe larghe in cucina e rifarle i denti marci costava troppo. E non c’eri quando gli chiedevano di dare il voto a quello che condonava tutto. Tu sei arrivato solo adesso. Lo hai fatto apposta a fare il giudice.” Dici così ed io sto in silenzio.

Hai sempre immaginato Ponzio Pilato come un uomo frettoloso che voleva fare tuttaltro. Un mobbizzato dell’impero. Un raccattapalle che non gioca mai.

“A che serve?” Chiedi.

“Cosa?”

Sospiri e dici: “Pensi che il tuo assassino sia pericoloso? Sai benissimo che non è così. Si è solo liberato a modo suo. Non farebbe più male ad una mosca. Spiegami a cosa serve il carcere adesso.”

Non ti rispondo. Tu metti sempre in dubbio le mie certezze, le sgretoli come burro congelato sul pane caldo. Tengo il punto a malapena, ma poi riemergo.

“Sai cosa mi ha chiesto quando ci siamo separati?”

Mi aveva domandato: “In carcere il pallone fa lo stesso rumore che qui, vero?“

Ti guardo negli occhi e dico: “Tu trasformi in un eroe l’essenza stessa del problema. Sopportare o uccidere non è la soluzione è solo un modo diverso di agitare bandiera bianca.”

Mi alzo, ho freddo, mi infilo un maglione. Sono materia dura con te, d’altronde devo sopravvivere.

Vengo verso di te, appoggio un polpastrello sopra il mucchio di molliche che hai rinchiuso nei confini di un quadrato di tessuto colorato.

“E’ un lavoro come un altro.” Dico. E non so mai se questo lo dico a te o me.

Copyright Cristiana Alicata


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