Nonostante passi almeno un terzo del mio tempo con la valigia in mano a salire e scendere dagli aerei per volare da un lato all’altro del globo, non è mia abitudine stilare reportage di viaggio che assomiglino a guide turistiche, pubblicando foto digitali come qualunque banale blogger giramondo o guide su cosa vedere e dove mangiare nei luoghi in cui la mia professione mi porta.
Ma, riadattando il titolo di un libro di Giuseppe Culicchia, posso tranquillamente dire che Londra è casa mia, considerato il numero di volte in cui mi sono ritrovato a camminare per le strade di Soho o a far la coda per comprare l’half-price-ticket di un musical nei botteghini del West End. Così, nominare il ristorantino tipicamente British in cui praticamente consumo ogni cena di tutti i miei reiterati soggiorni londinesi non ha più nulla a che fare con un suggerimento gastronomico per viaggiatori della domenica, ma assume il valore di una piccola nota sentimentale su come funziona la mia vita interiore quando le mie emozioni parlano inglese.kj
Credo di avere, negli anni, cenato al 17 di Frith Street più volte di quanto non mi sia capitato di farlo nelle tante trattorie camionistico-portuali che spargono odore di sugo sotto la mia casa genovese. Da lungo tempo non perdo più tempo a girare tra Tottenham Court Road e Leicester Square alla disperata ricerca di un posto in cui mangiare qualcosa di decente. Oramai, dopo diciassette anni di trasferte londinesi: in automatico prendo la metro fino a Piccadilly, cammino per qualche centinaio di metri, ed entro al Cafè Emm, sperando che sia libero il mio solito tavolino da single, quello rotondo proprio di fronte al bancone della cassa.
Non posso certo dire che si mangi da dio, né che qui si gustino chissà quali raffinate prelibatezze, ma non è questo che conta. Il Cafè Emm ha per me il sapore della Londra che più amo, e l’atmosfera che qui regna mi mette sempre allegria, oltre che appetito. Mi piace la lavagna in ardesia in cui sono elencati i musical attualmente in scena, mi piace il Theatre Menu pensato apposta per le tantissime persone che hanno solo voglia di mettere qualcosa sotto i denti in attesa di andare a vedere lo spettacolo, otto sterline e novantacinque per due piatti, purché si cominci a cenare entro e non oltre le 19 (o, come dicono qui, le 7 p.m.)
I piatti sono quelli della tradizione britannica, una lista di main courses che sembra uscita da un romanzo di Jane Austen: zuppe di porri, patè di fegato di pollo, stufato di carne alla birra, e ovviamente il Fish and Chips della tradizione anglosassone. Insomma non proprio delicatessen per palati fini, tutt’altro, ma non è questo che conta. Al Cafè Emm mi sento come nel salotto di casa mia, o invitato a cena da qualcuno di famiglia. Mi guardo intorno e rivedo tutte le volte che mi sono seduto a questo tavolo, ripercorro i momenti delle mie peregrinazioni solitarie, risento la voce di persone care che con me hanno ordinato un Chicken Divan.
E, nonostante non ci sia nessuno a cenare al mio tavolo, mi sento in qualche modo in compagnia.
Sebbene i camerieri siano ogni volta diversi dalla volta precedente, ho l’impressione che mi riconoscano come un cliente abituale, e che mi trattino con la cordialità che si riserva a un amico.
Ovviamente è solo una suggestione, un’elucubrazione del mio cervello, ma questo poco importa perché, quando si passano molti giorni in compagnia di nessuno se non di un ipod, di un libro da leggere e di una moleskine per scrivere, entrare in un ristorante e sentirsi in qualche modo un po’ meno soli è sempre la più prelibata delle pietanze.
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