La conclusione de Il secolo breve ha confermato con incisività quanto la conoscenza della storia sia fondamentale per avere una chiara idea del presente e dei possibili scenari futuri. Superate le analisi dell'età della catastrofe e dell'età dell'oro, con l'ultima parte di questo massiccio saggio ci troviamo proiettati nella parte del Novecento più vicina a noi, ma anche, indirettamente, nei nostri anni, perché l'esame delle premesse, sul finire del secolo, di ciò che stiamo vivendo, è talmente accurato che contiene la previsione di ciò che sarebbe accaduto ben oltre il termine del periodo preso in analisi da Hobsbawm. Questo fa la buona storiografia: costruisce basi solide di documenti, li confronta e li interpreta (non senza guardare a dinamiche passati di stesse tipologie di fenomeni) e costruisce teorie che, a meno di grossi e repentini sconvolgimenti, offrono una panoramica dell'immediato futuro.
Se è vero che la storia, secondo un detto antico, è maestra di vita, è altrettanto vero quanto affermato da Aldous Huxley, che "il fatto che gli uomini non imparano molto dalla storia è la più importante lezione che la storia ci insegna". Leggendo Il secolo breve ci si rende immediatamente conto che nel giro di pochi anni l'umanità è ricaduta negli stessi errori e nelle stesse sconsideratezze che aveva appena superato o creduto di superare. Ciò è soprattutto evidente dall'ultima parte del testo, intitolata La frana, che prende le mosse dal crollo della stabilità degli anni precedenti.
C'è, innanzitutto, la crisi degli anni '80, trattata in quel periodo in modo non diverso da come è stata trattata quella innescatasi nel 2008 e ancora in pieno corso: da un iniziale tabù "che impediva di pronunciare la parola "depressione"" alla convinzione che "in un anno o due si sarebbe tornati alla prosperità e alla crescita degli anni precedenti", dai "governi che guadagnavano tempo" alla diffusione di un sentimento di insicurezza e rancore, che aveva come causa principale la "divaricazione tra gli estremi della povertà e della ricchezza" (pp. 471-477 passim) e come effetto l'emergere di movimenti xenofobi, secessionisti o finalizzati unicamente ad opporsi alla vecchia politica senza proporre alternative nuove. Quella crisi ebbe cause e sviluppi assai affini a quella attuale, ma, lungi dal far tesoro degli errori passati o delle opportunità mai colte, dal 2008 in avanti si sono messe in atto (o, per meglio dire, non si messe in atto) le stesse strategie dell'ultimo ventennio del XX secolo. Forse sarebbe ora di affiancare agli economisti dei buoni storici o, almeno, persone che non guardino puramente al quadrare momentaneo dei numeri, ma dimostrino di avere vedute più ampie e dinamiche.
C'è poi una approfondita analisi delle rivoluzioni che hanno coinvolto, dagli anni '60 in poi, il Terzo Mondo, con un focus sulla situazione dei paesi islamici e sul rovesciamento del regime dello scià di Persia nel 1979 che dà molti spunti per comprendere come sia iniziato e perché si sia diffuso tanto rapidamente l'integralismo islamico di cui oggi vediamo gli effetti più drammatici.
Non mancano poi passi dedicati ai motivi che hanno provocato il crollo dell'URSS e l'emergere dell'industria cinese in seguito alla nuova divisione internazionale del lavoro, un fenomeno che, replicato in molti paesi in cui la manodopera ha un basso costo, ha concretizzato in meno di dieci anni dalla pubblicazione del saggio la previsione secondo cui si sarebbero prodotto un immediato abbassamento dei salari anche nel Primo mondo (per resistere alla concorrenza) o un totale spostamento della produzione nelle aree economicamente più convenienti, o entrambi gli effetti, come è effettivamente accaduto. Non occorreva uno studioso del calibro di Hobsbawm per una simile affermazione, ma quel che importa è che l'avvertimento c'è stato e nulla è stato fatto per evitare le conseguenze di un sistema economico disastroso per gran parte della popolazione mondiale. Questa è cecità.
La parte più interessante de La frana è a mio avviso quella dedicata all'emergere delle nuove arti (prima fra tutte la tv, che ha cambiato il concetto di cultura e la sua fruizione), al dibattito sul progresso tecnologico e sui dubbi della comunità scientifica circa la libertà della ricerca e il controllo della stessa da parte dei governi, che da un lato ne assicura la continuazione, dall'altro la espone a strumentalizzazioni che aprono dilemmi etici insanabili. Alla diffusione di tanti dubbi contribuirono sia la diffusione di un senso di relativismo che partiva dalle nuove teorie di Einstein e Plank, sia l'esperienza della distruttività del progresso durante i due conflitti mondiali (con l'incubo di una nuova guerra nucleare durante la Guerra Fredda).
I sospetti e la paura verso la scienza sono stati alimentati da quattro sentimenti: che la scienza è incomprensibile; che le sue conseguenze pratiche e morali sono imprevedibili e forse catastrofiche; che essa sottolinea la debolezza dell'individuo e mina l'autorità. Né infine dobbiamo trascurare il sentimento che, nella misura in cui la scienza interferisce con l'ordine naturale delle cose, essa risulta intrinsecamente pericolosa. [...] (pp. 614-615)
In questione non è tanto la ricerca della verità, ma l'impossibilità di separarla dalle sue condizioni e dalle sue conseguenze. [...] L'umanità, almeno nella sua organizzazione presente, non è in grado di controllare i poteri in suo possesso, poteri talmente grandi che potrebbero cambiare la faccia della Terra, e neppure di riconoscere i rischi che sta correndo. (pp. 642-643)
La causa della frana è stato lo sgretolamento della stato nazionale che, mentre ha di necessità subito un'erosione dall'alto, abdicando ad alcune delle sue prerogative per la causa della globalizzazione e delle istituzioni sovranazionali (le perplessità di Hobsbawm circa l'effettiva esistenza di un'unità europea sono più che evidenti e anticipano gli argomenti che siamo ben abituati a sentire ogni giorno), dall'altro lato si è lasciato consumare dal basso, rinunciando alle prerogative storiche che vanno dalla gestione delle comunicazioni all'assistenza sociale, dall'erogazione dei servizi essenziali al mantenimento della legge e dell'ordine pubblico.
Infine sono rimasta molto colpita dall'attenzione riservata ad un problema che colpisce in particolare il nostro paese (che più di una volta Hobsbawm cita come esempio): un' ostilità verso lo stato causata dalla sua stessa debolezza e da una tale corruzione che "i cittadini non si aspettano da esso alcuna utilità".
Sempre più i governi scavalcano, appena possibile, sia l'elettorato sia le assemblee parlamentari, o almeno cercano di metterli davanti al fatto compiuto, confidando di far passare le proprie decisioni sulla volubilità, le divisioni e l'inerzia dell'opinione pubblica. La politica diventa sempre più un esercizio evasivo. [...] Quasi certamente questa strategia evasiva continuerà a guadagnare terreno. [...]
Da un lato, la ricchezza, la privatizzazione della vita e dei divertimenti e l'egoismo consumistico rendono la politica meno importante e meno attraente. D'altro lato aumenta il numero di coloro che rinunciano a votare, calcolando che le elezioni servano a ben poco. [...]
Inoltre la tendenza sempre più sistematica dei governi a scavalcare i meccanismi elettorali e rappresentativi ha ingigantito la funzione politica della radio e della televisione. [...] Alla fine del secolo è diventato chiaro che i media sono una componente della vita politica più importante dei partiti e dei sistemi elettorali ed è probabile che rimangano tali. Comunque, mentre i mass media sono contrappesi molto potenti all'occultamento della verità da parte dei governi, essi non sono in alcun senso un mezzo di democrazia. (pp. 670-671).
Sono, dunque, molte le contraddizioni che non ci siamo lasciati alle spalle con il vecchio secolo e il vecchio millennio, al punto che, in chiusura al suo saggio, Hobsbawm sottolinea la necessità di una rottura col passato:
Il mondo rischia sia l'esplosione che l'implosione. Il mondo deve cambiare. Non sappiamo dove stiamo andando. Sappiamo solo che la storia ci ha portato a questo punto e sappiamo anche perché. Comunque, una cosa è chiara. Se l'umanità deve avere un futuro nel quale riconoscersi, non potrà averlo prolungando il passato e il presente. Se cerchiamo di costruire il terzo millennio su questa base, falliremo. E il prezzo del fallimento, vale a dire l'alternativa a una società mutata, è il buio.
C.M.