Magazine Diario personale

Il seggio vacante

Creato il 25 gennaio 2013 da Povna @povna

Gli elementi caratterizzanti della Rowling ci sono tutti. Lo stile scorrevole, ma non piatto, una certa attenzione linguistica (qui risolta nella costruzione di parlate socialmente diverse), la consueta abilità nel dipanare con calma il lungo tessuto della filatura della trama.
L’argomento si pone, volontariamente, come l’anti-Harry Potter: e proprio per questo denuncia in realtà a un occhio attento ben più di un legame con l’illustre predecessore. Se la narrazione è esterna (come Harry Potter), e a focalizzazione multipla (Harry Potter aveva adottato, viceversa, la focalizzazione variabile solo in capitoli decisivi), nei fatti gli agenti più importanti (e dunque i punti di vista cruciali) nella costruzione di quella che diventerà una svolta socio-esistenziale per la cittadina di Pagford sono il destino (in una occasione e mezzo) e un gruppo di ragazzi. Se nella serie del maghetto si poteva parlare del “mondo salvato dai ragazzini” (parafrasando Elsa Morante), questa volta quegli stessi adolescenti il loro mondo provinciale contribuiranno a mandarlo in qualche modo a fondo, anche se non sempre scegliendo al 100%, ma proprio con la leggerezza noncurante che è tipica dell’età strana.
Questo elemento – il fuoco dell’azione su un gruppo di ragazzi, uniti dalla frequenza di una stessa scuola, ma sicuramente non “gruppo” – costituisce in realtà un legame di continuità tematica con l’opera precedente. E serve a comprendere anche le altre scelte narrative della Rowling. Alle prese con la necessità di scrollarsi di dosso la school-story tinta di fantasy dei sette libri più famosi del mondo, la Rowling infatti sceglie di agire per opposizioni e contrasti. Anche se poi le armi letterarie che possiede sono, ovviamente, quelle già citate e solite; anche se qui si diverte a variegare maggiormente il suo gusto per la descrizione della varietà sociale.
La storia della cittadina di Pagford è catturata in medias res (l’inizio è folgorante), ma nell’oggi di una morte improvvisa (di Barry Fairbrother, vero e proprio deus-ex-machina in absentia, del quale il lettore viene a sapere tutto e il contrario di tutto, sempre e solo da discorsi riportati) che rischia di cambiarne gli equilibri sociali e politici. Da questo punto in poi il narratore seguirà le reazioni e gli intrighi elettorali delle varie famiglie. Che si riverberano sulla loro vita personale, così come su quella dei loro figli, scandendo le tappe di una vicenda che porterà – non attraverso rivoluzioni, ma una serie di piccinerie, egoismi, atti mancati, vendette personali e noncuranze – per tutti gli attori, a un cambiamento radicale.
Che cosa non funziona, allora, in un romanzo che comunque alla fine passa, abbondante, la sufficienza? Probabilmente, in termini teorici, si potrebbe rispondere il “genere”. Perché – se è comprensibile che la Rowling, a caccia di un piglio narrativo altro – abbia voluto sperimentare qualcosa di radicalmente diverso dall’impegno precedente, la scelta della tranche de vie neo-naturalista (o alla Amis, alla Franzen, per restare a modelli contemporanei) – condotta con un linguaggio all’occorrenza con un linguaggio ruvido, diretto, senza censure – appare alla fine forzata rispetto alle possibilità cui la scrittrice è costretta a mettere la briglia. Nel senso che – ed Harry Potter lo dimostra – la Rowling ha saputo dar prova di grandissima abilità nell’uso del modo romanzesco (che può declinarsi in maniera avventurosa, come nel caso di Harry, ma anche semplicemente nella forma quotidiana del credito concesso a un mondo costruito sulle coincidenze, il melodramma, i colpi di scena – e il pensiero corre anche alla tradizione britannica neo-romanzesca, i Coe e i McEwan su tutti). Ed è proprio il romance a essere volutamente assente da queste pagine (che non a caso arrivano a livello più alto là dove la Rowling se ne dimentica, lasciando, per qualche capitolo, mano libera al concetto di destino). Un’assenza pesante e, in ultima analisi, pronta a gettare la sua ombra sulla costruzione dell’intreccio, all’interno del quale una lunga serie di potenziali elaborazioni narrative si esaurisce in un nulla di fatto non per mancanza di talento o consapevolezza, ma per voluta scelta autoriale.
Prove tecniche di ampliamento di orizzonti, dunque, e Rowling promossa con riserva. Con la speranza che una narratrice che resta comunque abile, e di rango, non ceda alla falsa moda della rinuncia al romance come passaporto privilegiato verso il destinatario adulto. Ché la capacità di padroneggiare il make-believe, l’identificazione del lettore, come ricordava Stephen King, è un difficile talento. E non è bene che chi ha dimostrato di possederlo con tanta naturalezza decida di disfarsene. Per celebrare, goffamente e a freddo, la morte di Peter Pan.

La ‘povna propone come promesso la sua interpretazione di questo romanzo a Homemademamma, per il venerdì del libro.


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