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Oggi in Lettonia, nel corso delle celebrazioni per i venti anni delle barricate di Riga, si ricorda il giorno più importante, cruento, luttuoso e in fondo decisivo, di quella settimana in cui la gente scese in strada ed eresse barricate nei punti più sensibili e importante della città, per reclamare l'indipendenza dall'Urss.Per tutto il giorno la televisione lèttone ha trasmesso in diretta le celebrazioni dai luoghi che venti anni fa videro i cittadini costruire muri di fortuna, accatastare legna, sbarrare strade con gli autocarri, accendere fuochi per riscaldarsi. E porsi a mani nude di fronte ai reparti speciali della polizia sovietica. Fu un gesto simbolico, un gesto coraggioso e vano, fu come se un paese pronunciasse il proprio nome e la propria esistenza di fronte ai carri armati. Un gesto bellissimo a pensarci.E' difficile raccontare cosa sia oggi l'idea di patriottismo, di libertà, di indipendenza che percorre la Lettonia. Le disillusioni di anni di cattivi governi, di corruzione, di difficoltà economiche sempre crescenti, ha minato gli entusiasmi di molti, ha corroso la fiducia. Non poche volte in questi giorni ho sentito ripetere la stessa, ossessiva domanda: "A cosa sono servite in fondo le barricate del '91? Cosa ci hanno portato di buono?" Una domanda che i disillusi si pongono, senza aver il coraggio di aggiungere fino in fondo la risposta che suggerirebbe.Perché poi in tanti rispondono che le barricate servirono per dare un nome, una data, un'inizio al proprio paese, alla propria libertà. Zatlers, un presidente della Repubblica che all'inizio del suo mandato era quasi deriso (grande e pesantissima era l'eredità che lasciava una presidente amatissima come Vaira Vīķe-Freiberga) e nel corso degli anni si è conquistato lentamente e tenacemente la fiducia e la stima di gran parte del paese, lo ha detto meglio di tutti: "E' un privilegio, ed una cosa non scontata, vivere nel proprio paese libero e indipendente". Mio suocero era un nazionalista, nel senso buono, un patriota sentimentale. Lo era nel cuore, glielo vedevi negli occhi l'amore per il proprio paese, per le proprie origini, per le tradizioni della sua terra, per le canzoni, per le poesie, per quei passi danzanti che accompagnano le feste, i fuochi, i tempi delle stagioni e della storia. Sognerei oggi, nel mio povero lèttone, scambiarci ancora una parola e sentirgli raccontare quelle passioni, quei giorni persi e ritrovati sotto il ferro e il fuoco della storia, vedergli ancora gli occhi brillare.Uno di quei tanti figli di questo paese, magari disillusi, ma che tenaci, orgogliosi, innamorati, cantano "Dievs, svētī Latviju" come una conquista preziosa, con il senso di una tesoro da difendere, come un gesto che fino a pochi anni fa ti avrebbe portato dritto in Siberia. A noi ormai non è più dato di cantare così l'inno di Mameli. A noi, affogati nel marciume dei nostri ultimi anni, non è dato neanche vivere una rinascita, una liberazione, facendo fuochi di fronte a barricate di fortuna. Suonerebbe ridicolo. Per quello il mio cuore ormai sta là.
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