Tony Webster ricorda la sua ristretta cerchia di amici ai tempi della scuola.
Allora si sentivano tutti forti e immortali. Si immaginavano dei prigionieri dentro a un bizzarro recinto a cui non rimaneva che resistere, combattere, competere. Aspettavano forse solo un’accelerazione improvvisa o che un certo momento finalmente arrivasse di colpo, inaspettatamente. Come potevano immaginare che le loro vite erano invece già cominciate e che qualche danno lo avevano già combinato. Non capivano che dopo, nella vita, sarebbero stati liberati dentro un recinto più grande i cui limiti avrebbero in principio faticato a riconoscere…
Erano anarchici e meritocratici. Ogni sistema sociale e politico pareva loro fuorviato, pervertito, venduto. Leggevamo con foga Russell, Wittgenstein, Camus e Nietzsche, ma anche George Orwell, Aldous Huxley, Dostoevskij e Baudelaire.
Erano presuntuosi, ambiziosi, saccenti. Usavano espressioni come «Weltanschauung» o «Sturm und Drang». “Ci piaceva dire che una cosa era «filosoficamente tautologica», e assicurarci l’un l’altro sul fatto che il dovere primario della forza creativa fosse la trasgressione…”
Julian Barnes ne Il senso di una fine eccelle non poco nel colorare la realtà quotidiana meditando sulla storia, sulla memoria e sulla responsabilità individuale.
La sua prosa è ricca senza risultare appariscente e possiede una precisione e un’economia di linguaggio che in certi punti ricordano William Trevor.
Il senso di una fine, Man Booker 2011, ha tutte le caratteristiche di un classico della letteratura inglese grazie a un’architettura sottilissima e peculiare, molto accurata, calzante, pregevole.
Una scrittura avvolgente, sinuosa, piena di cose e di deliziosi dettagli che lascia il segno.
Twitter:@marcoliber
Julian Barnes
Il senso di una fine
(traduzione di Susanna Basso)
Einaudi
2012