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L’immagine gira da ieri sui social network: i protagonisti, sono forse più noti per il nome che per il volto. Quello a destra il sergente Bowe Bergdahl, il soldato americano rapito dai talebani nel 2009 e rilasciato – in cambio di cinque prigionieri di Guantanamo – i primi di giugno di quest’anno. Unastoria lunga e articolata la sua, piena di misteri e lati oscuri, che ha da subito suscitato polemiche negli Stati Uniti.
La foto, inutile dire, che si aggiunge alla lista di quei misteri: perché l’altro uomo insieme al militare statunitense è il capo combattente Badruddin Haqqani, “un martire” come lo definiscono ifratelli, ucciso in uno dei cinque attacchi con cui i droni americani hanno colpito il nord Waziristan nei giorni tra il 18 e il 24 d’agosto del 2012. Badruddin è figlio di Jalaluddin, testa fondatrice dell’organizzazione (potente gruppo di insurrezionalisti islamici, che si sono sempre distinti dai talebani, pur gravitando nella stessa galassia, e che hanno rappresentato una delle minacce reali più consistenti durante la guerra afghana). FInché in vita, avrebbe ricoperto un ruolo di primo piano nel Miramshah Shura, consiglio di comando e controllo delle attività militari della rete Haqqani, nonché nella gestione diretta dei rapporti con al-Qaeda – la sua mano sarebbe dietro al rapimento, nel 2009, del giornalista del New York Times David Rohed, e all’assalto all’Intercontinental di Kabul del 28 giugno 2011.
È stato il Middle East Research Institute (MEMRI) a riconoscerlo.
A giudicare dalla immagini, che sono state diffuse in rete dall’account Twitter @khorosan3(associato, secondo il MEMRI, al fantomatico Emirato islamico d’Afghanistan), Bergdahl non sembra troppo scosso, e nemmeno il suo presunto aguzzino, che anzi sorride mentre appoggia amichevolmente il suo braccio sinistro intorno alla spalla del prigioniero.
Elementi sufficienti ad infiammare, di nuovo, le ipotesi secondo cui Bergdahl avrebbe cambiato schieramento. Si era parlato di un suo passaggio tra le forze dei miliziani locali, anti-USA, forse sulla spinta emozionale, quanto istintiva, di un possibile caso Homeland nel paese-reale (che colpo, eh!?). Sembra esserci poco di realmente credibile, tuttavia. Anche se restano comunque quelle lettere discutibile indirizzate ai famigliari, in cui il sergente esternava il proprio malcontento nei confronti del suo governo e dei commilitoni.
Un altro pezzo di questa storia da film, insomma.
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