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Sat, 22 Mar 2014 20:42:04 GMT
Sat, 22 Mar 2014 20:42:04 GMT
Mario Rigoni Stern
<<Ho ancora nel naso l’odore che faceva il grasso sul fucile mitragliatore arroventato. Ho ancora nelle orecchie e sin dentro il cervello il rumore della neve che crocchiava sotto le scarpe, gli sternuti e i colpi di tosse delle vedette russe, il suono delle erbe secche battute dal vento sulle rive del Don. Ho ancora negli occhi il quadrato di Cassiopea che mi stava sopra la testa tutte le notti e i pali di sostegno del bunker che mi stavano sopra la testa di giorno>> [...].
L’incipit del capolavoro dello scrittore veneto Mario Rigoni Stern, “Il sergente nella neve” (1953) racchiude memoria e poesia, natura e testimonianza in quello che è senza dubbio uno dei romanzi più belli e classici del Novecento, un diario di guerra che racconta come in circostanze tragiche si possa e si debba mantenere la propria umanità. Uomini che restano uomini tra le barbarie della guerra, uomini che hanno paura, freddo, fame, ma che sanno addirittura ridere delle proprie disgrazie e considerare i nemici semplicemente degli uomini come loro, i russi vengono descritti come gli italiani, nella loro fragilità: <<Sono giovani e non hanno la faccia cattiva, ma solo seria e pallida, e compunta, guardinga>>.
Il cammino letterario di Stern comincia proprio in questo modo, durante la guerra: è un giovane alpino, sergente maggiore scampato alla ritirata di Russia dell’esercito italiano tra la fine del 1942 e l’inizio del 1943, capace di guidare un gruppo di soldati allo sbando fuori dalle linee di fuoco. Divenuto improvvisamente responsabile delle vite di molti uomini, viene catturato dai tedeschi ed è costretto a sopravvivere per più di due anni nei lager di Lituania, Slesia e Stiria. La prigionia dà modo allo scrittore di riflettere sulla sofferenza ma anche sul valore della letteratura, che diventa veicolo per le sensazioni e i ricordi, luogo della testimonianza e della memoria, della fratellanza e della riscoperta del significato di essere uomini, che coincide soprattutto con il non lasciarsi sopraffare dalle bruttezze della Storia , dal relativismo delle circostanze.
Leggendo “Il sergente nella neve” si è paradossalmente pervasi da un senso di pace e di tranquillità, è straordinario e commovente, quasi infantile come Stern riesca a raccontare il dolore e la disperazione, senza retorica e crudezze, ci tocca e ci emoziona con immediatezza e delicatezza, trasmettendoci un profondo senso di moralità. Stern descrive la nostra essenza che fa da eco a quella della montagna e del bosco, la semplicità della quotidianità pur trovandosi una situazione estrema dalla quale però emerge la certezza della speranza. Il modo di narrare utilizzato dallo scrittore accarezza il lettore, conducendolo dolcemente a scoprire i silenziosi segreti della natura, con le sue stagioni e fenomeni atmosferici, dai quali l’uomo può trarre forza.
Particolare ed universale si fondono magicamente; questa è la cifra di Stern, lo si nota anche nei romanzi successivi “Il bosco degli urogalli”, “Storia di Tönle”, “Le stagioni di Giacomo”. Come Hemingway in “Addio alle armi”, Mario Rigoni Stern ha portato nuova linfa, freschezza e serenità nel romanzo italiano, fattore che fa de “Il sergente nella neve” un classico imperdibile del Novecento, statico e plastico nella prima parte e incalzante e dinamico nella seconda, non è avvolto dalla ricercatezza formale ma dall’esperienza diretta che fa esprimere l’autore in un certo modo, che gli fa descrivere quel microcosmo in cui si trova in un certo modo. Lo scrittore di Asiago osserva; non scrive con la testa ma con gli occhi e riporta tutto ciò che vede, sente e annusa sulla carta con grande precisione.
Il sole, la neve, l’inverno, la primavera, il bosco, l’attesa di ritornare a casa, l’uomo che guarda in faccia al suo simile senza provare vergogna perché non si è lasciato dominare dalla brutalità e dalla violenza della guerra, dalle circostanze che, ormai è assodato che costituiscano un’ attenuante ai nostri gesti ed azioni più esecrabili. Come afferma Elio Vittorini nel manoscritto con una esplicazione che volle aggiungere, “Una volta tanto le circostanze avevano portato degli uomini a saper restare uomini, [...] Se questo è successo una volta, potrà tornare a succedere.Potrà succedere a innumerevoli altri uomini e diventare un costume, un modo di vivere”.
Succederà?