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Il "sesso debole" (di Calabria).

Da All_aria @all_aria

Il “sesso debole”. E’ la definizione del genere femminile che la società italiana ha dato alle donne.  L’Italia intera, la stessa che nel tempo se n’è lavata la coscienza, delle donne deboli, delle donne assoggettate, delle vittime. Questa di Italia ha già pensato a tutto: ha inserito le quote rosa, ha istituito la festa nazionale delle donne, ha fatto ciò che era necessario.  E’ l’Italia che assiste al femminicidio e alle violenze, ma che non ne fa un reato perseguibile, che ne fa piuttosto un fenomeno locale. E non importa se i numeri sono spaventosi nella solitudine del settentrione, no. Perché quel che conta per l’Italia intera è dividere e sentirsi superiore. 
No,  voi al nord non avete morti ammazzati,  non avete i barboni incendiati nelle strade di periferia,  non avete l’indifferenza che cammina accanto alle persone colpite da un piccone.  No, voi no.  Certo, perché voi siete evoluti, voi le donne le vedete per quello che sono: una merce, un prodotto che fa vendere, un corpo da mostrare per attirare qualche bel maschione a comperare, perché la donna vi ha dato accesso al marketing.  Eccome se siete evoluti. Come siete civili.
 E’ bella l’Italia perbenista ed ipocrita.  E lo diventa di più se vive al nord, perché allora anche tu puoi sentirti libera di pensare “mamma mia, meno male che son nata qui, neh”.  E meno male davvero, perché noi, donne di Calabria nasciamo con le palle già in dotazione, e se da donna le palle non ce le hai non sei degna di questa definizione. 
La questione (meridionale) femminile.  Ebbene, io mi chiamo Ilaria, ho 27 e in Calabria ci sono tornata.  I miei genitori non hanno fatto le macumbe per chiedere al Dio Sole figli maschi, hanno tre figlie, tutte donne, con le palle. E ne sono orgogliosi.  Da noi l’amore è libero, proprio come al nord, e si sta in apprensione per il lavoro che non c’è. Solo che da noi le mamme non le sentirete mai esortare le figlie a far favori al cavaliere, per 5mila euro al mese,  ché piuttosto si mangia pane e cipolla e in qualche modo ce la si fa.  Il lavoro.  Le mamme, per le figlie, vogliono il lavoro. Perché le mamme, per le figlie, vogliono l’indipendenza, l’autonomia che rende liberi. 
E mi dispiace se questa è una lezione che l’Italia tutta non ha imparato,  mi dispiace se persevera nell’ignoranza.  A noi, figlie del sud, nessuno mai si è permesso di zittirci con un “cittu ca tu si fimmina, non su così pi tia”, non è - sappiatelo - un’espressione tipica locale, ma - semmai - una frase più consona ai rapporti del malaffare, che ricorda i legami più complessi delle famiglie in cui c’è un capobastone a parlare con la figlia.  E addirittura nelle nuove ’ndrine le donne di Calabria sono quelle che contano davvero, la distorsione, il paradosso.
Non mi ritrovo in quel “il sesso debole”, non in Calabria,  quanto nell’Italia intera piuttosto, quella che se n’è lavata le mani,  che se anche non ti fa indossare un burqa o un sari ti passa in giudicato l’aver indossato il jeans troppo attillato,  che annovera fra i ministri alle Pari Opportunità le di lei grazie nei salotti della Rai.  E io vorrei vederlo un giorno un ministro al “Macismo all’italiana” in mutande, così per par conditio. 
E tu giornalista nazionale, cambia mestiere, fallo per primo,  per non rischiare di far credere a qualcuno che chi scrive certe cose poi possa pensarle davvero…

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