Caro M.
Che di tutta questa cosa dell’Atreju, io, a me, la cosa che mi ha fatto paura sono state le domande. Si presentavano come concorrenti di quiz televisivi, con nome/età/provenienza e domanda.
Che una, che m’è rimasta impressa un sacco, praticamente gli ha chiesto “Signor Presidente, a parte l’umano errore della telefonata con Lavitola, avrebbe mai lasciato il paese?”
Io là ho pensato ai miei di errori, e ho riflettuto sul fatto che io, i miei, di errori, non li ho mai definiti umani.
Gli errori son bestiali casomai, nel momento in cui se ne prende coscienza semantica.
Quando quella ha detto umano errore io ho pensato a una rappresentazione semiotica, del solito problema del senso di colpa.
E io e te siamo stati un errore bestiale, nei modi e nelle pose fisiche e cerebrali che abbiamo preso?
Ieri ho riletto le mail. Michele, mi sono toccata.
Perché è così, perché non è passata, perché m’ossessioni gli slip, perché non ce la faccio a non pensare a quando mi leccavi le caviglie e io colavo di noi.
E tu salivi dal polpaccio alle cosce, e dentro alle cosce ci rimanevi ore, o almeno a me, io, a me, mi sembravano ore.
E io mi chiedevo perché non salivi, ché io, fossi stata là, tutte quelle ore, sulle cosce, non le avrei sprecate di supplica così.
Poi arrivavi con la tua di supplica, che era fatta di una lingua che svirgolava senza la vergogna delle virgole, ché a me, io, le virgole, quando le metto, mi sento sempre un po’ in colpa, quando edito le cose.
Che poi te, tanto l’hai manco mai capito il mio lavoro, mi dicevi che c’era un che di saccente e ipocrita nel fare l’editor.
E io ti davo ragione, per non perder tempo a discutere, e tornare alla virgola di lingua.
Caro M.
Ieri, poi mi è venuto in mente, che ci sono ancora mille cose che ti devo raccontare, mille cose che dobbiamo fare, mille cose che.
Per esempio che La bambina che amava troppo i fiammiferi è un libro che conoscono in pochi, ma che se tu lo leggessi, diventerebbe il tuo libro preferito, ti sconvolgerebbe la vita, ti sostituirebbe gli occhi.
Più asciutto del primo della Trilogia della città di K, più follemente caro della Versione di Barney, più completo delle Memorie di Adriano.
Perfetto.
È un libro perfetto.
Michele, come può essere finita se ancora non t’avevo cacciato fuori il titolo del libro perfetto?
È un nonsense questo. Un’evidenza storica che non è finita.
Poi un giorno me lo spiegherai perché il tempo dentro la mia fica era così inversamente proporzionale rispetto al tempo sulle cosce.
E perché i fianchi quasi li saltavi, e che cazzo hai contro ‘sto cazzo di piercing all’ombelico, che continui a dire che ti fa schifo.
Che c’è di schifoso? Ah, che poi volevo anche chiederti di che sa il seno, che io me lo sono sempre chiesta. E se c’è differenza, come sapore, tra la pelle e il capezzolo.
C’è differenza? Qual è più buono? E la fica di che sa? E la bocca? E io?
E che differenza c’è per te quando mi scopi guardandomi in faccia e quando mi scopi guardandomi il culo e mi tieni per i capelli, che ho capito perché non li voglio corti mai più. Mai più.
E io me le ricordo le fitte alle costole quando cucinavo e si sentiva nell’aria che stavi per arrivare, sicuro come una sicurezza, cattivo come un pensiero che non si pensa ma si fa.
Duro, dentro, diretto, profondo come un pugno in pancia, Michele, piegata come una troia che potevi usare quanto e come volevi, con le braccia larghe, lunghe distese, con quel vezzo romantico delle dita dentro alle dita. Un merletto, una trina, un pizzo, un tombolo di cattiveria malata e bella e dura e bagnata. E ogni colpo sottotitolato, prima dai mugolii e poi dalle urla. Michele. Le urla. Io me le sento nelle conchiglie del mare le urla.
E mi ricordo l’ultima volta, che non tenevi i capelli, ma la collana, che a me mi piaceva da morire, e tu me l’hai rotta e non me l’hai aggiustata.
Verranno a salvarci gli americani, lanciandoci ancora le sigarette e la cioccolata?
A che età uno, tecnicamente, deve smetterla di mangiare schifezze è un quesito che mi tormenta l’anima da almeno un decennio.
A scuola mi hanno detto che il grigio è il colore che esalta di più tutti gli altri colori.
Tra tutti i tipi di carta, io, a me, quella proprio che mi sta sul cazzo è quella millimetrata, ché ogni quadretto è un capriccio da starlette di terza categoria.
Secondo me il mestiere più poetico del mondo è la guardarobiera, secondo me una guardarobiera, tra l’altro, ha letto l’opera omnia di Valeria Parrella, della Mastrocola, e le è piaciuto tantissimo La solitudine dei numeri primi.
Una volta ho editato un catalogo d’arte fichissimo sulla mostra di Caravaggio di Roma, e quando poi me l’hanno dato e l’ho aperto, nella didascalia c’era rimasto il refuso bruttissimo “Madonna in treno col Bambino”, e non in trono. Mi sono incazzata tantissimo.
Col correttore di bozze. Non è un umano errore quello, è un errore bestiale, quasi un’imago semiologica, un aborto etico da lettera di licenziamento.
Praticamente, per togliere la gomma da masticare, se ti si appiccica al vestito, devi mettere il vestito in freezer e poi dopo che si è congelata, la gomma, si stacca facilissima.
Ho uno svincolo di lacrima, mi inclino a sinistra e mi risolvo la questione liquida, ma non quella dannata.
Michele, quando finisce una storia si fa del revisionismo: si vedono le cose in un modo diverso, si ricordano i ricordi sbagliati, si accentano gli accenti stonati. Io la mattina voglio alzarmi e non credere che ho contribuito a costruire questo falso storico.
Umanamente, erroneamente, tua.