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Il socialismo cooperativo di Bruno Jossa

Creato il 24 novembre 2014 da Sviluppofelice @sviluppofelice

di Nicolò Bellanca

 Le imprese gestite dai lavoratori possono superare il capitalismo?

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Secondo Bruno Jossa (autore di Il marxismo e le sfide della globalizzazione, Manifestolibri, Roma, 2012, pp.361, euro 38,00) l’aspetto più significativo dello sviluppo capitalistico «è che esso realizza il passaggio da un sistema che produce merci a mezzo di merci ad un sistema che produce denaro a mezzo di denaro» (pp.240-41). L’attualità del marxismo, egli sostiene, consiste in una robusta proposta teorico-pratica di cambiamento del modo di produzione capitalistico. Tale proposta riguarda un sistema di cooperative di produzione gestite dai lavoratori. Soltanto questo sistema può, al contrario di un sistema d’imprese pubbliche con pianificazione centralizzata, realizzare il superamento del capitalismo. L’impresa gestita dai lavoratori, o labor-managed firm (LMF), capovolge letteralmente il rapporto capitale-lavoro: sono i soci-lavoratori che assumono il capitale, prendendolo a prestito, lo remunerano con un interesse quale compenso fisso e distribuiscono a se stessi il sovrappiù. Poiché in un’impresa autogestita sono i lavoratori a percepire un reddito variabile, sono essi che si assumono i rischi degli investimenti e la responsabilità delle decisioni strategiche.

Tuttavia, rispetto al modello puro d’ispirazione marxiana, nel quale il lavoro salariato è abolito e le scelte dell’attività produttiva sono da tutti condivise, mi sembra che il modello di Jossa presenti tre importanti modifiche, dalle quali sorgono alcune difficoltà. In primo luogo, la LMF può (entro certi limiti) reclutare salariati, avendo dunque, al proprio interno, così lavoratori-soci come lavoratori-dipendenti. Ma una cooperativa che guadagni bene tenderebbe a non aprire a nuovi soci, assumendo piuttosto salariati, poiché ciò accrescerebbe il reddito dei vecchi soci; alla lunga, potrebbe trasformarsi in un’impresa in cui pochi soci comandano una massa di dipendenti. In secondo luogo, l’assemblea dei lavoratori ha il potere di eleggere i manager e di votare su poche opzioni fondamentali, mentre i manager godono di ampia autorità gerarchica.

In terzo luogo, poiché il capitale che finanzia la LMF è di prestito, se esso proviene da capitalisti esterni, ovviamente costoro non diventano, erogandolo, i proprietari dell’impresa; se proviene, almeno in parte, da prestiti dei lavoratori, costoro non possono alienarlo su un mercato azionario, debbono portarlo con sé quando lasciano l’impresa, e dunque non possono rivendicare titoli proprietari sull’impresa come tale. Ne segue che, non spettando la proprietà giuridica della LMF né ai creditori né ai soci, essa deve, secondo Jossa, appartenere allo Stato. Ma affidare alla proprietà pubblica la sorte delle LMF significa, per menzionare solo una tra molte difficoltà, che i manager dirigeranno le imprese non tanto per specifiche abilità tecniche, quanto per effetto della propria lealtà politica.

Le tre modifiche di Jossa sono insomma rilevanti: siamo davanti ad un modello d’impresa autogestita in cui comandano i manager, i quali tendono a integrarsi nell’élite del potere statale, ed in cui l’elenco dei soci e quello dei lavoratori non coincidono (ovvero in cui vi sono salariati).

Si aggiunga che la LMF su cui si concentra Jossa è un’impresa del tutto immaginaria; in particolare, essa è molto diversa dalle imprese cooperative storicamente esistenti. Al riguardo Jossa cita Vanek: «dire che le cooperative dei lavoratori non si sono affermate, e che quindi non sono vitali, è come dire che i tessuti sani in un corpo afflitto da un tumore non sono vitali, mentre la metastasi che si sviluppa rapidamente è qualcosa di cui essere fieri» (p.64). Tuttavia, affermare che la LMF non esiste, pur essendo l’impresa “sana”, è come dire, poniamo, che nel capitalismo dovrebbe affermarsi una distribuzione “equa” del reddito e della ricchezza perché sarebbe “giusto”: si tratta, in entrambi i casi, di tesi normative, non di analisi positive. Proprio coltivando una prospettiva normativa, il modo principale tramite cui, secondo l’autore, la LMF dovrebbe imporsi, è che lo Stato, orientato da una maggioranza politica socialista, la consideri un “bene meritorio” e le conceda benefici fiscali e creditizi, affinché essa possa vincere la concorrenza delle imprese capitalistiche. Questa tesi conferma che non esistono tendenze strutturali endogene per le quali la LMF possa di per sé affermarsi, bensì che «il socialismo non è il risultato necessario dello sviluppo capitalistico, ma un obiettivo politico, da perseguire su basi morali» (p.239).

Concludendo, il proposito intellettuale di Jossa è ammirevole. Egli prende sul serio la constatazione di Przeworski, secondo cui il periodo attuale «è forse il primo, lungo duecento anni, ad essere privo di un progetto di radicale trasformazione sociale» (p.256). Purtroppo, la debolezza di fondo del suo tentativo sta, a mio avviso, nel credere che un nuovo modo di produzione possa essere individuato, discusso, perfezionato e approvato “a tavolino”. Jossa elabora un wishful thinking tanto fascinoso, quanto politicamente inefficace.

24 novembre 2014


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