Caracas: centro propulsore continentale dell’integrazione latino-americana e capitale mondiale del cosiddetto “Socialismo del XXI° secolo”.
Comunque la si pensi, un viaggio in Venezuela di questi tempi è un’esperienza che lascia impressioni indelebili giacchè, fin dallo sbarco all’aeroporto internazionale “Simon Bolìvar” e percorrendo le affollatissime strade che conducono al centro cittadino, si ha la netta impressione di trovarsi in un posto alquanto speciale.
Sulle ripide colline che costellano la vasta area urbana di Caracas si abbarbicano i barrios, popolatissimi quartieri che raccolgono il sottoproletariato rimasto ai margini della società per decenni ed a cui il governo chavista ha per la prima volta riconosciuto un bagaglio di diritti minimi: espulsi dalle campagne, dove la manodopera disponibile è storicamente in eccedenza rispetto alla domanda di lavoro, milioni di persone indigenti hanno costruito case di fortuna che sfidano la legge di gravità e creano dei cumuli che somigliano, visti a distanza, ai nostri presepi natalizi.
23 de Jenero, Catia, Petare: questi sobborghi brulicanti di case, di uomini, donne e soprattutto di bambini, costituiscono la vera linfa vitale del processo rivoluzionario inaugurato dal Presidente Chavez.
Il mio amico Gabriel, per il cui matrimonio siamo accorsi in Venezuela, ci spiega che durante il colpo di Stato supportato da George W. Bush nell’aprile del 2002, con il quale una componente reazionaria dell’esercito venezuelano provò a mettere da parte l’esperienza bolivariana, migliaia di persone si misero in marcia spontaneamente da questi barrios, raggiungendo rapidamente il Palazzo Presidenziale Miraflores dove reclamarono a gran voce il rientro del loro legittimo Presidente: Hugo Chavez, anche grazie alla decisiva presa di posizione in suo favore di alcuni maggiorenti dell’esercito, riuscì così a rientrare in sella nel giro di 48 ore, in quella che finora viene ritenuta la prima esperienza di colpo di Stato fermato da un moto popolare (1).
I primi di dicembre del 2011 la capitale venezuelana ha dato il battesimo ad una nuova organizzazione intergovernativa a carattere regionale, sorta con la finalità di dare finalmente un corpo istituzionale all’integrazione dei Paesi latino-americani: la CELAC (Comunidad de Estados Latinoamericanos y Caribeños).
La nascita dell’organismo (a cui aderiscono 33 Paesi situati a sud del Rìo Bravo, dal Messico fino all’Argentina, con la inedita esclusione degli U.S.A. e la significativa inclusione di Cuba) costituisce un evidente successo politico per il Presidente Chavez, nella cui mente la CELAC costituirà d’ora in poi un gran polo di potere regionale, realizzazione del sogno di un’unica Patria grande già coltivato da Simon Bolìvar e dal Che Guevara, punto di arrivo dopo 200 anni di battaglia per sottrarsi alla dottrina Monroe imposta da Washington (2).
Uno dei primi aspetti che si colgono in un viaggio in America Latina è che, da quelle parti, il latifondo e l’allevamento estensivo di bestiame, praticati dalle più potenti famiglie oligarchiche di origine bianca ed indo-europea, richiedono da sempre poche braccia per l’agricoltura e al contempo sottraggono tanta terra preziosa alla coltivazione di prodotti alimentari decisivi per il sostentamento della popolazione: in quest’ambito il chavismo è intervenuto in misura pesante, con una radicale riforma agraria che punta ad espropriare tutti i terreni privati eccedenti un certo limite dimensionale e che risultano non coltivati o improduttivi.
Nonostante il clima politico generalmente favorevole ai piccoli contadini, il mio amico Diego mi riferisce che anche nelle immense campagne venezuelane (sebbene in misura molto inferiore a quanto quotidianamente accade nella vicina Colombia, ultimo bastione geopolitico degli U.S.A. nella regione) si segnalano molti omicidi di campesinos aspiranti alla distribuzione di un piccolo fazzoletto di terra.
Ma è nell’ambito della gestione dell’immensa ricchezza petrolifera che Hugo Chavez ha impresso la svolta più significativa al Paese.
La completa nazionalizzazione dell’oro nero ha aperto al Venezuela due grandi risorse.
In primo luogo, le ha consentito di inaugurare la stagione della “diplomazia del greggio”, usando il petrolio quale mezzo alquanto persuasivo per ingraziarsi l’amicizia ed il sostegno politico di diversi Paesi viciniori, con alcuni dei quali si è cementata l’integrazione economica mediante la creazione dell’ALBA, un’area di scambio alternativa alla zona di cosiddetto “libero commercio” (ALCA) egemonizzata da Washington.
Sotto un altro profilo, il controllo pubblico sulle entrate del greggio ha permesso in quest’ultimo decennio di “socializzare i profitti” della vendita del petrolio, reinvestendoli in immense campagne governative (definite Misiones) che hanno regalato a milioni tra i più poveri ed emarginati del Paese ciò che essi non avevano mai avuto in passato: assistenza sanitaria gratuita nei quartieri popolari delle città (Misiòn Barrio adentro), con il decisivo apporto professionale di personale sanitario cubano; alfabetizzazione di massa estesa anche alle periferie più estreme del Paese (Misiòn Robinson); da ultimo, proprio nei giorni di quest’ultimo Natale si è inaugurata la Misión Niños y Niñas del Barrio, finalizzata a sottrarre i bambini dalla devianza minorile di strada attraverso un programma sociale di recupero.
La mia amica Melys ci invita orgogliosamente a visitare il progetto di recupero minorile di cui lei stessa è responsabile all’interno del Municipio di Petare, uno dei luoghi a più alto tasso di violenza e omicidi di tutto il Paese (se non dell’intero subcontinente). Ma sono in tanti a sconsigliarci di fare ingresso all’interno del barrio, che sarebbe troppo pericoloso per dei gringos di pelle bianca come noialtri, perfino in orari diurni.
Rinunciamo all’invito, anche per mancanza di tempo, ma non senza avere compreso un aspetto causale poco conosciuto inerente la genesi di un certo tipo di violenza di strada a Caracas: è più di uno ad informarmi del fatto che all’interno del pericolosissimo barrio di Petare si sono infiltrate delle cellule organizzate di paramilitari colombiani i quali da tempo svolgono una lenta ma costante azione di destabilizzazione del Venezuela, spesso fomentando disordini e microcriminalità e non rinunciando al controllo dei flussi di cocaina (abbondantemente prodotta nel loro Paese d’origine, a dispetto del tanto sbandierato Plan Colombia Made in U.S.A.).
Riusciamo a conoscere anche Mariana, dentista venezuelana moglie di Antonio (docente e intellettuale creativo emigrato dall’Italia) la quale ha scelto per vocazione di operare proprio all’interno di Petare, praticando tariffe calmierate a beneficio della sua clientela di estrazione sottoproletaria che abita il barrio.
“Nonostante sia stata aggredita già due volte all’interno del mio studio dentistico – ci confida Mariana, la quale comunque vive in una graziosa zona residenziale di Caracas – traggo quotidianamente gratificazione, nel mio lavoro, dal rapporto con la gente umile del quartiere”.
In fondo il Venezuela socialista e bolivariano di oggi è soprattutto questo: una terra dove si tenta di colmare rapidamente le immense differenze sociali formatesi in decenni di ricette neo-liberiste.
Alla fine degli anni ’80 del secolo scorso, i locali discepoli del “gran sacerdote” Milton Friedman (tra i quali si segnalava l’allora Ministro dell’Industria Moisès Naìm, spesso ospitato sulle colonne del settimanale italico pseudo-progressista l’Espresso, bibbia della nostra borghesia de sinistra) avevano appena finito di privatizzare tutto ciò che c’era da privatizzare in Venezuela, con la consueta egida del F.M.I., quando tra le strade di Caracas scoppiò il finimondo: la rivolta del Caracazo, nel 1989, fece centinaia di morti tra la popolazione civile che, esasperata dal costo della vita divenuto insostenibile, prese d’assalto banche e supermercati, un po’ come avrebbero fatto poco più di un decennio dopo, per cause analoghe, gli abitanti di Buenos Aires all’insegna del motto “que se vayan todos!”.
Non tutti i settori della società venezuelana hanno accettato di buon grado l’avvento del socialismo bolivariano a conduzione chavista: i gruppi sociali che, prima dell’avvento di Chavez si collocavano nei piani alti della piramide sociale, non hanno perdonato al Governo la pesante ingerenza nei loro affari, dalla inedita imposizione fiscale (prima quasi del tutto assente nel Paese) ai penetranti controlli sulla regolarità del lavoro subordinato.
A tal proposito, mi ha colpito non poco scoprire che in Venezuela, quando gli ispettori del lavoro “fanno visita” ad un esercizio commerciale riscontrandovi delle irregolarità fiscali o contributive, sono autorizzati dalla legge ad apporre una specie di cartello con funzione di marchio d’infamia sulla porta d’ingresso del negozio, a beneficio informativo della clientela.
Il punto più critico dell’azione governativa, denunciato con particolare intensità dalla comunità di emigrati italiani presente in Venezuela, è quello degli espropri di alcune aziende.
Il socialismo chavista riconosce il diritto alla proprietà privata e permette piena libertà alla piccola iniziativa d’impresa ma interviene incisivamente sull’accumulazione di capitale medio-grande con azioni mirate di esproprio per pubblica utilità, in particolare contro le fabbriche e gli stabilimenti ritenuti fermi o improduttivi. Un imprenditore di origini italiane stabilitosi a Maracay non ci nasconde che per lui, se Chavez dovesse vincere anche le prossime elezioni previste per la fine del 2012, sarebbe preferibile spostare la sua azienda in Brasile, Paese ritenuto più sicuro per gli investitori privati.
La verità è che le azioni di esproprio sono spesso dirette da ambienti militari, nei quali può annidarsi un tendenziale arbitrio che a volte collima con una propensione endemica alla corruzione, costume ahimè molto diffuso a queste latitudini.
Un Paese in cui si percepiscono sentimenti contrastanti, quindi, il Venezuela, ma davvero molto lontano dall’immagine rozza, falsa e caricaturale fornita dai mass media italiani ed europei, che per descrivere il Paese sudamericano sono spesso soliti ricorrere impunemente all’epiteto diffamante (oltreché fuorviante) di “dittatura”.
Nel quartiere coloniale di El Hatillo, sito alla periferia di Caracas, sono tutti benestanti e di indole anti-chavista. Il titolare di un bar-paninoteca sfoga senza remore il suo sentimento ostile al governo: “Lavoravo nella grande azienda petrolifera statale (la PdVSA, n.d.r.) ma quando c’è stata la serrata che paralizzò per diversi mesi il Paese (3), alla quale aderii, sono stato licenziato. Tuttavia adesso ho una mia impresa che fattura l’equivalente di circa 600 dollari al giorno”.
Se di “dittatura” si tratta – mi viene subito da pensare – è una dittatura alquanto liberal, visto che il chavismo ben permette ad un dissidente epurato dalla più importante azienda di Stato di aprire un’attività ricettiva in un elegante quartiere della capitale, con un fatturato niente male!
Negli ambienti vicini a Chavez, viceversa, si respira un’atmosfera di elettrizzante e contagioso entusiasmo che la recente malattia del Presidente ha finito per rinvigorire, anziché abbattere: per tutta la capitale si leggono scritte e murales che augurano una pronta guarigione al Presidente con l’incitamento “Pa’ lante, Comandante” (Avanti, comandante)!
Tra gli intellettuali ed i giovani chavisti, il fermento è palpabile: a Caracas si lavora sul cinema, sulla cultura, sulle iniziative che valorizzino le identità indigene ancestrali ed anche sulla riorganizzazione dei mezzi di comunicazione, oggi in Venezuela ritenuti un bene del popolo e per il popolo.
Il governo chavista negli ultimi anni ha revocato la concessione a trasmettere via etere anche a storiche televisioni commerciali come R.C.T.V. ma al contempo ha distribuito dal basso nuove frequenze ad associazioni e gruppi di quartiere: da qui la esplosione delle TV e radio comunitarie, un’esperienza di reale democrazia partecipativa che dalle nostre parti è ritenuta assolutamente “roba da marziani ” ma che invece in America latina vive una diffusione a macchia d’olio.
E che il sistema della comunicazione in Venezuela funzioni ben diversamente che da noi lo si comprende anche dal grado di diffusione di certe notizie che qui in Italia non sono certo possedute dall’uomo della strada: un istruttore di nuoto di mezza età, che mi ha offerto gentilmente di aiutarmi a cercare un taxi in un mio momento di difficoltà, mi spiega dettagliatamente cosa è accaduto alla Libia di Gheddafi (appena “aggredita dall’Impero”) e ci tiene a mostrarmi un filmato memorizzato sul suo cellulare che ritrae gli ultimi momenti di vita del leader libico. Da una frase in idioma spagnolo scappata dalla voce di uno dei carnefici di Gheddafi (“el fusil, el fusil!”) si deduce la probabile presenza anche a Sirte degli immancabili para-militari colombiani.
“Se lo hanno fatto alla Libia – conclude il mio gentile amico venezuelano – un giorno potranno farlo anche a noi. Ma a quel punto noi ci stringeremo in un abbraccio difensivo che coinvolgerà tutto il continente, a cominciare dal nostro buon vicino Brasile. E vinceremo!”.
In un’Europa sconvolta dalla crisi dei debiti sovrani, dal dominio della finanza tecnocratica, dal generale impoverimento dei ceti medio-bassi e dalla costante incertezza verso il futuro che ci attende, non farebbe male a nessuno rivolgere un maggiore sguardo di attenzione verso il continente sudamericano, che pulsa di vitalità e voglia di crescita, ricordando sotto tanti aspetti i gioiosi anni ’50 e ’60 del novecento, fase che in Europa fu vissuta dalla generazione protagonista dell’immediato dopoguerra.
Il socialismo latino-americano del XXI° secolo è interessante da studiare perché non ha dogmi ma è allo stesso tempo un laboratorio di idee ed un cantiere vivo di progetti in carne ed ossa.
E’ un socialismo redistributivo, gradualista ed autenticamente riformista (quanto è abusata in Italia, ed a sproposito, questa antica categoria concettuale!).
Un socialismo fondato sull’inclusione e sull’aspirazione al riscatto dei poveri e degli emarginati.
Un socialismo condito da un sano nazionalismo patriottico di stampo sovranista e solidale.
Un socialismo che può apparire liberticida soltanto a chi ritiene che la più sacra delle libertà dell’uomo sia quella di arricchirsi.
Un socialismo che guarda anche a noi che viviamo nel cosiddetto “mondo ricco” (ricco ancora per quanto tempo?), ricordandoci che quando l’uomo è totalmente alienato dal lavoro ed è tutto preso dalla smania compulsiva di “competere” con i suoi simili, ha già perso una buona fetta della propria umanità, anche se non ne è consapevole.
Giulio Santosuosso, docente universitario di origini italiane, già assistente del prof. Lucio Lombardo Radice alla “Sapienza” di Roma, da circa 35 anni emigrato in Venezuela, afferma di essere arrivato qui dopo avere compreso che “l’occidente è morto da tempo”.
La sua idea di socialismo è stata condensata nello scritto “Socialismo en un paradigma liberal“.
Monica Vistali, giovane giornalista professionista di origini bresciane, racconta quotidianamente la vita a Caracas dalle pagine del suo blog: lei invece ha scelto di rimanere a vivere in Venezuela semplicemente “perché qui l’aria è più frizzante”.