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Il sogno che brucia

Creato il 17 dicembre 2011 da Soniaserravalli

Tutta la notte di nuovo in contatto con il mio “corrispondente” dalle strade del Cairo. E’ stato uno dei primi militanti del movimento 6 aprile dal 2008, erano poche centinaia, ora sono milioni. Quello che mi racconta è impressionante, per i suoi contenuti più ancora che per le descrizioni delle uccisioni. Ieri ha visto altri due suoi concittadini morire a tre metri da lui. Dal 25 gennaio ad oggi non si è perso quasi un solo giorno di Tahrir e delle manifestazioni per i punti cruciali del Cairo, e finora è sopravvissuto più volte.
Cerco di raccontare per punti nel modo più semplice possibile.
Nelle ultime settimane, dopo l’elezione del Primo Ministro ed ex uomo di Mubarak (1996-99) Kamal al-Ganzouri, terzo Primo Ministro dalla caduta dell’ex Rais ad oggi (dopo Ahmed Shafik ed Essam Sharaf), si è formato un sit-in ad oltranza di manifestanti pacifici fuori dall’edificio in cui si trova il suo ufficio per manifestare il loro dissenso. Nel frattempo si sono svolte le prime due tranche di elezioni parlamentari in Egitto (per quelle presidenziali ancora nessuna data certa), l’ultima appena due giorni fa. Dopo ognuna di queste tornate si sono riaccese le violenze nella capitale, sempre ad opera dello SCAF (Consiglio Supremo delle Forze Armate) – fatto che sarebbe sotto gli occhi di tutti, se non fosse che gran parte degli egiziani vive ancora in uno stato di semi-analfabetismo e segue le TV di Stato, perché fuori da ogni rete e privi di antenne paraboliche, o semplicemente per lavaggio del cervello ben somministrato nel corso di ben 60 anni.
S. dal Cairo mi racconta che le ultime violenze hanno avuto inizio non proprio nella giornata festiva di ieri, un altro venerdì, quanto già la notte prima. I militari avrebbero prelevato uno dei manifestanti pacifici, malmenato e rilasciato, rovinato e sfigurato, sulla strada davanti agli altri dimostranti la mattina dopo. Poi, sono seguiti spari, anche dai tetti e lanci di oggetti contundenti sui cittadini (8 morti ad ora, oltre 300 feriti), fino al giorno dopo, e i disordini continuano ad oggi (se si possono chiamare “disordini” gli attacchi di chi è armato ed è al potere contro cittadini disarmati).

Chiedo a S. al Cairo cos’abbia da guadagnarci l’esercito nell’operare tali violenze sotto gli occhi di tutti. Mi risponde dettagliatamente. Ovvio che lo scopo non era creare paura per farli sfollare: lo scopo era creare rabbia, farli ribollire, far sì che da pacifici si trasformino in disordinati e rabbiosi. Per poter così additarli davanti a tutti gli altri milioni di egiziani che guardano la cosa dalle TV e dire: vedete, sono questi il vostro problema, sono questi “ribelli” a gettare il Paese nel caos e a prolungare la crisi economica che spaventa tutti, da febbraio in poi, col crollo del turismo e l’anarchia seguita alla caduta del Rais. “Noi non abbiamo fatto niente, cercano solo di infangarci”, questo il messaggio. In queste ore stanno perfino cercando di sequestrare le telecamere ai giornalisti.

Gli spauracchi che l’esercito sta usando sono fondamentalmente due, e presto diverranno 3 – il punto 3 è già in fase di modellamento:
1) fattore economico e crisi seguita alla rivoluzione e alla fase di transizione. In Egitto quasi nessuno può permettersi di vivere di risparmi, si vive alla giornata e se per un mese non si percepisce lo stipendio è un dramma per una famiglia media. Non viene a mancare il videoregistratore o la lavastoviglie, che si potrebbero vendere in caso di necessità: no, verrebbe a mancare il pane, i denari per pagare un affitto e le bollette, per non parlare di quelli necessari in Egitto per una sanità pubblica che deruba i cittadini. Additare i liberali che restano in piazza a morire e a lottare per i diritti di tutto un popolo meno acculturato di loro come i “colpevoli” degli stipendi dimezzati e del lavoro che manca è il gioco più facile del mondo, e uno dei più ignobili che abbia incrociato sulla mia strada.
2) Fattore “Israele”. Non ci si può permettere lo scenario di Yemen, Siria o Libia: gli egiziani non lo vorrebbero mai, sono arabi pacifici e ben poco “testa-calda” rispetto agli altri, e poi bisogna stare attenti che non si alteri il grande vicino di casa. Israele, e la sua potenza (nazionale e internazionale). Bisogna temere un vicino molto “testa-calda” e pericoloso, abbassare i toni e farsi guidare dallo SCAF al più presto e nel modo più ordinato possibile, o “lui” potrebbe arrabbiarsi – quel Paese che la maggior parte degli egiziani non riconosce nemmeno come esistente. Quindi, una specie di fantasma.
3) Il fattore ancora in fase di modellamento (e qui, oltre a raccontare il reportage di S. dal Cairo aggiungo anche il mio parere, ed altri raccolti in Sinai), è quello di creare, dietro le quinte, da una parte una sorta di coalizione con l’altra unica vera forza in questo Paese accanto a quella dei militari, ossia l’ala islamica (pur con tutte le sue diverse componenti), e dall’altra di usarla come ulteriore spauracchio – e questo SOPRATTUTTO verso l’estero – per poter un giorno, di nuovo e dannatamente di nuovo, come Mubarak, apparire come i pacieri, i salvatori della patria, la buona mamma chioccia che media, che salva il Paese da ogni estremismo e che lo guida con polso e fermezza per la retta via: l’esercito.

Perché l’ala islamica è forte? Non perché gli egiziani siano estremisti o fanatici religiosi, semplicemente perché dopo 60 anni di marasma e corruzione il cittadino medio ha pensato: almeno se darò il mio voto a un religioso immagino sarà una persona più “pia” rispetto agli altri politici arraffatori. Probabilmente io avrei fatto lo stesso. Peccato che, a chi guida i partiti  cosiddetti “islamici”, della religione e di Dio interessi ben poco.

Chiedo anche a S. come gli egiziani abbiano potuto fidarsi così tanto dei militari durante e dopo la caduta di Mubarak, visto che al loro vertice c’era e c’è Tantawi, notoriamente amico  e collega dell’ex dittatore. Mentre glielo chiedo, percepisco già quale possa essere la risposta, perché ero qui e quell’ondata l’ho vissuta anch’io. Semplicemente, AVEVAMO BISOGNO DI CREDERCI. Avevamo bisogno di credere in qualcuno. Dopo 18 giorni di rivoluzione e di morti, e 30 anni di soprusi, la gente era esausta e, come descrivevo allora su questo stesso blog, agognava con tutte le sue forze un leader, una guida. Non c’era nessun altro, e apparentemente l’esercito si è comportato come se fosse stato lui ad aiutare il popolo scalzando Mubarak – ricordate l’annuncio della sua caduta da parte di Suleiman, in ASSENZA del Rais – uno scenario altamente simbolico. Ovviamente, l’esercito stava facendo i suoi interessi. Ricordo i commenti di alcuni stranieri che già presagivano la cosa. Era facile per loro leggere tra le righe: non erano esausti, non avevano sulle spalle i macigni di 30 anni di ingiustizia e le scene quotidiane vissute sulla propria pelle in quelle piazze, e soprattutto avevano sempre un’alternativa.

S. ha ancora segni sul corpo. Un giorno si è salvato la vita semplicemente infilando la testa dentro una cabina del telefono durante gli spari, che hanno invece decapitato quello al suo fianco. Peraltro, l’esercito egiziano è ASSETATO di potere, 1) perché prima regnava la Polizia, e i militari erano sempre spediti a svolgere le operazioni più scomode in giro per i deserti, quando non a fare la guerra, come quella degli anni Settanta per la riconquista del Sinai contro il vicino-fantasma. 2) Perché devono difendere la propria illegittima legittimità: se mollassero gli ormeggi, verrebbero certamente processati e incarcerati per i crimini commessi negli ultimi mesi.  In aggiunta a tutto ciò, chissà poi quali giochi internazionali macinano dietro questa stessa strategia, per il comodo degli equilibri di altri.

E Mubarak dov’è? Nel frattempo, questo non lo sa più nessuno.

S. insiste sulla scarsità numerica di egiziani che sanno, che leggono tra le righe, che vedono la strategia retrostante, e gli stessi (dice, al massimo) 3 milioni che la rivoluzione l’hanno fatta davvero al Cairo. Aggiungiamoci pure qualche altro milione tra le rivolte di allora a Suez contro la Polizia (che nulla c’entravano con il caso Mubarak) e quelle di Alessandria e delle altre città minori: sempre nulla, secondo S., rispetto agli 80 milioni di egiziani di cui è composto questo Paese. Poi, ci sono i rivoluzionari da sofà, quelli che in arabo hanno chiamato “il partito del divano”, che non si sono lasciati convincere a scendere per le strade durante la zaura, che guardavano dalle finestre e dai balconi i “ribelli” che li chiamavano, ma non se la sono sentita di raggiungerli. Sono scesi per le strade e a Tahrir a fare numero solo dopo la caduta di Mubarak, a fare foto coi carri armati, quando si sono sentiti al sicuro. Non ci sono andati, in quei giorni, quelli come S. Ci sono andati quelli con il corpo intatto del “partito del divano”. Qualcun altro dei veri rivoluzionari, poi, sì, certamente, con il bisogno di crederci. Quelli come S. sono rimasti in disparte ad aspettare e ad osservare con sospetto. “Il nostro errore è stato quello di sciogliere la rivoluzione e tornare a casa, lasciare Tahrir dopo l’11 febbraio. Non dovevamo farlo,” dice adesso.

S. non dice che andrà tutto perduto, ma dice che loro hanno solo gettato i semi per qualcosa che avrà speranza di germinare solo tra due o tre generazioni. Anche durante le ultime elezioni le scorrettezze non si contavano. C’erano uomini che distribuivano volantini di propaganda per il proprio partito addirittura ancora mentre la gente era in fila per le urne. Non è legale in alcuna democrazia, esistono regole precise durante e dopo la campagna elettorale, ma il fatto è che qui la gente comune non lo sa neanche.

Questa mattina ho raccolto un pugno di questa sabbia rocciosa, di granelli misti a pietra, roccia e corallo, e ho abbracciato l’Egitto.

Ultim’ora:
è appena stato estinto il fuoco nella più ricca libreria d’Egitto, al Cairo (fondata da Napoleone Bonaparte nel 1798). Avevo già scritto il titolo di cui sopra, un’ora prima che giungesse la notizia, come una premonizione. Non è ancora stato quantificato il danno fatto. L’uomo fonda meraviglie e imperi e poi li brucia.

IL SOGNO CHE BRUCIA

Burning with you


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