Ecco il racconto segnalato:
Vivevo incastrato nei vostri cervelli come un evaso appeso al filo spinato. Passavo da una mente all’altra, in successione, senza poter mai essere me stesso. Mi si negava la possibilità di donare immagini di gioia quando ero felice o immagini di tristezza quando la mia anima piangeva. Ero obbligato dalle vostre fobie ad assumere forme che non si addicevano al mio essere ed al mio umore, ero costretto a incutere terrore perché la coscienza vi lacera le viscere.
Ero nauseato di essere l’emanazione dei vostri vizi, l’effetto abbietto dei vostri limiti; non volevo essere il fumo acre che si alza dalle vostre vite bruciate, né la melma che scende dai vostri occhi lacrimevoli! Volevo essere fuoco io stesso, anelavo a bruciare e creare luce, scaldare mani ghiacciate e trasudare energia: questo era il mio sogno, audace e naturale come il sangue nelle vene.
Io sono bellissimo, lo sono da sempre: ho la forza e la fragilità di una ragnatela, la plasticità della creta bagnata e un ventaglio di colori che l’arcobaleno mi invidia. Ma voi, voi siete sempre stati più forti: in voi la seta diventa bava di ragno, la creta si polverizza in fango secco e i miei colori si mischiano fra loro generando tonalità di marrone ed antracite che mi si fondono addosso come una divisa di gomma bollente.
Nella speranza di trovare menti pulite, sono entrato nei sonni dei vostri figli: almeno loro, privi della maledizione della parola, lasciavano che le mie metamorfosi perdessero le sfumature di orrore adulto. Visti da fuori, alcuni dei vostri cuccioli sono allettanti promesse di pace. Ma rimangono promesse non mantenute. Ricordo un piccolo, una notte, roseo, dal respiro regolare. Dormiva sotto una giostra di farfalle e api immote e mute che dondolavano sopra la sua testa. Ma appena mi sono accoccolato in quel corpicino caldo e quieto, qualcosa è cambiato. Sono comparse farfalle dai denti acuminati e api dagli occhi rossi: roteavano fameliche come cannibali attorno alla vittima di un sacrificio. O forse ero io a roteare in quel modo: ho sempre avuto delle difficoltà a riconoscermi nelle vostre immagini. Ne intuivo la forza devastante, ma io non la potevo convertire in gioia; udivo i vostri singhiozzi e vedevo i vostri sussulti, ma per quanto vivessi dentro di voi, non c’era alcuna fusione, alcuna intimità. Voi restavate voi stessi, e io mi deformavo come l’urlo di Munch.
Ero troppo stanco. Che vita era quella? Dovevo cercare altrove, osare qualcosa che nessuno dei miei simili aveva tentato prima. Una mattina, appena uscito da un cervello che mi aveva costretto a squartare un pollo idrofobo, vidi una betulla dalla corteccia scolorita. Dormiva nel freddo metallico di gennaio, attenta a non muoversi per non spostare l’aria gelida.
Una pianta non può avere rimorsi, paure, cattiverie, rimpianti: nessun alimento all’angoscia umana che mi imbruttisce, mi dissi.
Così quel tronco e quei rami diventarono, per un po’, la mia dimora. E per un po’ mi trovai bene, senza sussulti muscolari né cuori accelerati. Poi, però, un poco alla volta, mi accorsi che qualcosa non andava: le radici non assorbivano quasi più acqua, lo facevano a singhiozzo, con fatica, come se la linfa si fosse trovata a lottare con una forza di gravità ogni giorno più gagliarda.
E poi, fu come se un uomo avesse smesso di respirare: il panico. Ma un panico attutito, muto, che si incarnava in una vibrazione delicata che dalle radici si estendeva fino alle ultime punte dei rami. Era un panico rassegnato, il peggiore. Non si estendeva alle foglie, solo perché foglie non ce n’erano.
Poi mi guardai intorno per capire cosa stava succedendo e vidi che le altre betulle erano in agitazione. Delle gemme verdi spuntavano con le teste dai rami spogli: la primavera stava arrivando.
Uscii dal mio ospite come un demone sotto esorcismo: la betulla si stava svegliando. Mai – è una regola di vita per noi incubi – mai restare in un corpo quando il sonno è finito: per esso sarebbe la pazzia; per noi, la condanna a vita a una veglia sincopata.
Così mi ritrovai di nuovo nell’aria. Non volevo tornare in voi umani, e non potevo tornare nelle piante, che ormai si pavoneggiavano di verde. Ero in uno stato di semi-esistenza: per vivere, noi incubi abbiamo bisogno di qualcuno che ci abbracci e ci guidi; come le lucertole, non riusciamo a scaldarci da soli e, a lungo andare, la mancanza di un ospite caldo ci uccide. La simbiosi che mi derubava di me stesso e che vi faceva tremare di paura, mi permetteva di vivere.
Dunque dovevo scegliere tra due opposti: una vita deformata, o la morte; una vita imprigionata in qualche pianta impazzita o la morte. A ben pensarci, non di opposti si trattava, ma di modi diversi di morire.
Finché vidi lui. In mezzo a molti, eppure solo. Sferzato da schiaffi ventosi, eppure impavido. Colpito da mille storie, eppure apatico. Lanciato da forze estranee, eppure immoto. Che sia ignorato o l’oggetto di un’attenzione, lui ignora. Mi ignorò anche quando entrai in lui.
L’assenza di vita è la sua essenza e la mia salvezza. Questo sasso è diventato la mia casa. Quello che pensavo significasse “essere se stessi” ha perso ora ogni valore, è un bersaglio dai colori confusi. Non mi interessa più essere fuoco, perché il sole decide quando scaldarmi; non mi serve più emanare luce, perché il buio è riposante; non ci sono mani fredde da intiepidire, e non mi serve alcuna energia perché qui non c’è niente da compiere.
Vi guardo da qui mentre vi tormentate e lasciate ammuffire ogni momento di felicità: io non vi servo, fate tutto da soli. E ormai voi non servite più a me.
Qui non c’è niente, è un deserto racchiuso in un pugno. Eppure, io qui sto bene. Senza passioni né amori, io, qui, vivo il mio sogno.