Se solo Woody Allen avesse ancora la voglia, o magari la capacità, chissà, di girare come un tempo, fluido e composto, elegante e leggero, il suo Midnight in Paris che ha aperto il Festival di Cannes sarebbe un film bellissimo. Perché è sì un po’ svaccato come ormai sono i film di Allen da anni a questa parte, ma al tempo stesso ha una malinconia sincera e dolcemente disperata che commuove. E soprattutto mi sembra un film in linea coi tempi, con la continua riflessione sulla fascinazione del passato di cui parlavo ieri a proposito di Mildred Pierce e che in questi ultimi tempi, grazie soprattutto all’ambiguo fascino vintage di Mad Men, è diventata un rifugio per il cinema contemporaneo. Allen non ha certo la complessità estetica di Solondz, ma i suoi personaggi perduti tra Picasso e Gertrude Stein, Hemingway e Fitzgerald, Degas e Gauguin, hanno la tristezza delle illusioni, la consapevolezza che il sentimento dell’amore è universale ma la vita no, la vita si vive nel presente e il cinema può solo sfiorarla. Niente di trascendentale, intendiamoci, e Allen potrebbe andare molto più a fondo di quello che fa, oltre le macchiette di personaggi famosi riportati in vita dal suo sogno parigino (a me ha fatto morir dal ridere Adrien Brody che fa Dali e la faccia di Bunuel quando il protagonista, che viene dal futuri, gli suggerisce la trama dell’Angelo sterminatore). Questa volta, però, sono propenso a perdonarlo: perché si rifugia in un sogno di liberazione dal presente che appartiene al cinema tutto, e non solo a lui. E diversamente da quanto potrebbe sembrare non è un sonno piacevole quello che ha deciso di dormire nella sua età che porta alla morte.
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Se solo Woody Allen avesse ancora la voglia, o magari la capacità, chissà, di girare come un tempo, fluido e composto, elegante e leggero, il suo Midnight in Paris che ha aperto il Festival di Cannes sarebbe un film bellissimo. Perché è sì un po’ svaccato come ormai sono i film di Allen da anni a questa parte, ma al tempo stesso ha una malinconia sincera e dolcemente disperata che commuove. E soprattutto mi sembra un film in linea coi tempi, con la continua riflessione sulla fascinazione del passato di cui parlavo ieri a proposito di Mildred Pierce e che in questi ultimi tempi, grazie soprattutto all’ambiguo fascino vintage di Mad Men, è diventata un rifugio per il cinema contemporaneo. Allen non ha certo la complessità estetica di Solondz, ma i suoi personaggi perduti tra Picasso e Gertrude Stein, Hemingway e Fitzgerald, Degas e Gauguin, hanno la tristezza delle illusioni, la consapevolezza che il sentimento dell’amore è universale ma la vita no, la vita si vive nel presente e il cinema può solo sfiorarla. Niente di trascendentale, intendiamoci, e Allen potrebbe andare molto più a fondo di quello che fa, oltre le macchiette di personaggi famosi riportati in vita dal suo sogno parigino (a me ha fatto morir dal ridere Adrien Brody che fa Dali e la faccia di Bunuel quando il protagonista, che viene dal futuri, gli suggerisce la trama dell’Angelo sterminatore). Questa volta, però, sono propenso a perdonarlo: perché si rifugia in un sogno di liberazione dal presente che appartiene al cinema tutto, e non solo a lui. E diversamente da quanto potrebbe sembrare non è un sonno piacevole quello che ha deciso di dormire nella sua età che porta alla morte.
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