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Il sorriso della madre. Leopardi, von Balthasar, l’esperienza del tu.

Da Paolotritto @paolo_tritto

C’è qualcuno che desidera la vita? (Salmo 34)

Nasce l’uomo a fatica, / ed è rischio di morte il nascimento. / Prova pena e tormento / per prima cosa; e in sul principio stesso / la madre e il genitore / il prende a consolar dell’esser nato.

Non è la prima volta che inserisco in un mio post i versi di questa indimenticabile poesia di Giacomo Leopardi. Me ne scuso con i lettori – qualora ce ne fossero – ma credo non sia facile prescindere dal Canto notturno di un pastore errante per l’Asia quando si cerca di cogliere i nodi centrali del pensiero moderno. «Se la vita è sventura, / perché da noi si dura?»

Ritengo, infatti, che attorno a questa domanda ruoti gran parte del dibattito culturale corrente. Se la vita è sventura, pena, perché affrontare la realtà? Perché farsi carico dell’esistenza? Perché vale la pena vivere? E non si tratta di un “dibattito culturale” soltanto, essendo questa una questione che investe violentemente tutto il modo di vivere dell’uomo contemporaneo, il suo modello di società, le sue leggi, l’idea stessa che l’uomo ha della vita.

È inutile aggiungere che c’è poco da opporre alle osservazioni di Leopardi. È così. «È funesto a chi nasce il dì natale». E io leggo così anche la notizia, con l’inevitabile orrore che provoca, della sacrilega legalizzazione dell’eutanasia estesa anche ai bambini, approvata in questi giorni dal Parlamento del Belgio. Se la prima cosa che emerge della vita è la brutalità, non possiamo immaginare se non leggi brutali a regolare il suo scorrere.

Eppure, la gelida natura, ridestandosi a un certo punto, imprevedibilmente diventa capace di uno slancio amoroso. Leopardi, infatti, osserva: «Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore / Rida la primavera».

Questa è una domanda ancora più vera della precedente «Se la vita è sventura, / perché da noi si dura?» Perché, a pensarci bene, al bambino che nasce ciò che si impone immediatamente e con forza non è tanto l’arido dato della realtà, quanto una presenza capace di trasformare questa realtà. È la presenza materna, la presenza di una donna, di quell’angolo della natura cioè che si è aperta alla vita. Nascendo, il bambino non viene quindi scaraventato sul neutro dato di una natura inerte e fredda, ma è posto davanti al tepore di un fatto che lo affascina e lo prende totalmente, alla natura nell’atto sorridente del suo aprirsi alla vita.

Non saprei dire se dietro i versi leopardiani precedentemente citati ci sia qualche riferimento a un passo delle Bucoliche di Virgilio che nella IV Egloga recita: «Incomincia, piccolo bambino, a riconoscere la madre dal sorriso». È probabile che questo riferimento ci sia; comunque, Leopardi non poteva certo ignorare questo notissimo passaggio virgiliano e aveva ben presente il valore attribuito a questa sorridente vergine-madre nella quale qualcuno ha visto una profezia dell’avvento del cristianesimo, la rivelazione di una possibilità buona per l’uomo.

Il bambino trova il modo per introdursi nella realtà, bella o brutta che sia: lo sguardo materno, uno sguardo carico di positività o, per usare un’espressione cara alla pietas cristiana, lo sguardo di una donna “piena di grazia”. «È funesto a chi nasce il dì natale». Sembrerebbe questo il destino, ma la presenza materna ha il potere di trasfigurare la realtà, di investire la realtà col suo slancio amoroso. Il primo atto umano, quello che l’uomo compie ancora infante – “infans”, ancora prima cioè che possa aprirsi, schiudersi a una vita di relazione – è di mendicare questo “tu” materno che dà significato alla vita; o meglio: il primo atto dell’uomo appena nato è il desiderio di essere accolto come unico, irripetibile e imprescindibile, nel “mondo”, rappresentato nella sua totalità dalla realtà materna.

Il grande teologo Hans Urs von Balthasar, nel capitolo conclusivo del quinto volume di Gloria – “Eredità e compito del cristiano” – ha osservato a questo proposito: «Certo un bambino non emerge alla coscienza con questa domanda. E tuttavia essa è presente, incognita ma vigile e netta, nel primo batter di ciglia del suo spirito. Il suo io emerge cosciente nell’esperienza del tu: al sorriso della madre, per grazia del quale egli esperisce che è inserito, affermato, amato in qualche cosa che incomprensibilmente lo cinge, già reale, e che lo custodisce e lo nutre. Il corpo al quale si stringe, soffice, caldo e nutriente guanciale, è un guanciale amoroso in cui si può rifugiare perché era già stato prima il suo rifugio. L’aprirsi della sua coscienza è tardivo a paragone di questo mistero abissale che lo anticipa in una prospettiva incalcolabile. La coscienza vede entro limiti ciò che là c’era da tempo, e lo può quindi soltanto confermare. Una luce assopita si desta un bel giorno in luce vigile che riconosce se stessa. Ma si desta all’amore del tu, come pure nel grembo e sopra il seno del tu aveva prima dormito. L’esperienza dell’entrata concessa in una realtà che ti protegge e ti abbraccia resta qualcosa di non più superato dall’ulteriore coscienza che succede, cresce e matura».

La posizione di Giacomo Leopardi, a questo proposito, è significativa non soltanto per il suo alto valore letterario ma per la corrispondenza tra la sua poesia e la coscienza dell’uomo contemporaneo, il quale non riesce più a cogliere la positività del reale. Il dibattito attorno a questo tema, che assume toni altamente drammatici perché giunge inevitabilmente a interessare gli aspetti più sensibili dell’esistenza come il nascere e il morire – l’aborto e l’eutanasia – viene solitamente ricondotto in un ambito dottrinale o in un processo di elaborazione culturale. Le parole di Leopardi e quelle del teologo von Balthasar ci mettono in guardia però dal rischio di comprimere le esigenze della ragione umana entro lo spazio angusto del pensiero, estromettendo il mondo – tra l’altro predominante nella vita di relazione – degli affetti.

A questo proposito, Marcello D’Orta, in All’apparir del vero – anche di questo ce ne siamo occupati già – un saggio che ha dedicato a Leopardi, scrive: «Salvo qualche eccezione, gli studiosi sono concordi nel ritenere del tutto negativo il legame affettivo di Giacomo con Adelaide (al punto da sospettare che fu il rapporto con la madre – sentita come matrigna – a essere all’origine del pensiero leopardiano e del suo credo pessimista). Secondo la testimonianza di Carlo, la madre non abbracciò “mai” i figli. Dichiarazione confermata dalla moglie Teresa, che scrisse: “La Contessa Adelaide” non cedette “a nessuna dimostrazione di tenerezza. Essa stendeva la sua mano alle labbra de’ suoi figli, ma non se li strinse mai al seno”.»

Mancò, dunque, a Leopardi ciò che per von Balthasar è fondamentale perché emerga la coscienza dell’io: l’esperienza del tu, suscitata inizialmente dal sorriso della madre. Ciò che poteva rappresentare, però, un caso eccezionale in quelli che nell’epoca di Leopardi erano i normali rapporti familiari, è divenuta oggi una realtà molto diffusa, facendo emergere con sempre maggiore frequenza la sofferenza dell’io al quale spesso manca non soltanto la possibilità di sereni legami affettivi, ma la stessa possibilità di essere ridestato alla vita. Si ripiomba così nella vita come “sventura”, una vita che rende a molti insopportabile il vivere.

«C’è qualcuno che desidera la vita?» recita il Salmo 34, «e brama lunghi giorni per gustare il bene?» Non si tratta di avere la forza di mutare il male in bene; si tratta semplicemente di voltarsi indietro, rivolgendo lo sguardo a ciò che precede anche il bene e il male, rivolgendo lo sguardo, come ci ricorda von Balthasar, «al sorriso della madre, per grazia del quale egli esperisce che è inserito, affermato, amato in qualche cosa che incomprensibilmente lo cinge, già reale, e che lo custodisce e lo nutre. Il corpo al quale si stringe, soffice, caldo e nutriente guanciale, è un guanciale amoroso in cui si può rifugiare perché era già stato prima il suo rifugio».


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