Magazine Società
Il suffisso -ismo per certi versi è inutile: non c’è alcuna sostanziale differenza tra una cosa e la sua contestualizzazione in un sistema, perché nulla è fuor di ogni sistema. Non reputo possibile, dunque, un pensiero de-ideologizzato: potrà non essere riconducibile ad una ideologia nota, ma credo che il pensiero sia per sua natura ideologico e ideologizzante. Arrivo ad essere radicale e dico che pensare è sistematizzare. Vi ho già fatto cenno – e nello specifico rimando a quanto ho addotto in argomento – quando ho detto che tra morale pubblica e moralismo non v’è alcuna sostanziale differenza. Oggi voglio parlarne un poco più estesamente intrattenendomi sul conato di de-ideologizzazione che da destra, come da sinistra, si è cominciato a sentire dal 1989 in poi. E mi limiterò a dire del ripetuto fallimento di questo conato da parte della destra italiana.Cosa può significare liberare la destra italiana dal giogo ideologico? In pratica, può significare solo de-sistematizzare l’ideologia della destra, anzi, le ideologie della destra: può significare solo ri-contestualizzare i termini sui quali essa regge. Qui non voglio annoiare il mio lettore e rimando alle numerose pagine (qui un sommario) che ho dedicato alla sussistenza di molte destre nella destra, tutte irriducibili ad una, tranne che per una caratteristica comune: la natura trascendente dell’individuo. Chiedo solo: cosa può significare de-ideologizzare la destra se non spostare l’individuo da un sistema all’altro? E in quale? In altri termini: quando i finiani dicono di voler liberare la destra italiana dal giogo ideologico, in quale sistema intendono trasferirla? Ancora, più brutalmente: quale può essere l’esito – auspicabile o no – di un ri-pensamento della destra italiana?Per me che, prima di approdare al liberalismo, ho speso la gioventù tra Nietzsche ed Evola, tra il “fascismo immenso e rosso” e nevrastenici estetismi paganeggianti, sono domande che valgono di più di una scommessa. Ho abbandonato An nel 1995, a pochi mesi dalla fondazione, perché correvo troppo avanti: il Manifesto di Fiuggi grondava ancora di rebecchinismo e di tatarellismo, di liberale aveva troppo poco. Però capivo Fini, che più di tanto per volta non poteva. Anche per questo non mi sono mai stupito troppo dei suoi strappi, che inevitabilmente laceravano la parte più mobile della base ex-missina da quella più refrattaria ad ogni emancipazione liberaldemocrazia, segnata senza speranza dalla fascinazione dell’autoritarismo. Capivo Fini, costretto a procedere ma lentamente. E però era troppo lento perché potessi stargli dietro.Più andavo avanti io, più mi sembrava lontano, ma ad ogni suo strappo lo sentivo un po’ più vicino: sempre troppo lontano, in ogni caso, sicché quando nel 2003 scriveva il disegno di legge che sarebbe diventato la famigerata Fini-Giovanardi (decreto legge n. 272 del 30.12.2005, poi legge n. 49 del 21.2.2006), io ero già antiproibizionista da sei anni e, quando dichiarò che avrebbe votato sì a tre dei quattro quesiti referendari sulla legge n. 40 del 19.2.2004, gli rimproverai il no al quarto, strascico ideologico di una destra che riconosceva il vincolo parentale esclusivamente nel sangue.Furono anni nei quali attorno a Fini si agglutinarono aennini e indipendenti nati dopo la caduta del fascismo, come lui d’altronde, e venuti alla politica dopo la morte di Almirante, foss’anche per mera questione anagrafica. Sangue fresco, potremmo dire, ma in arterie sclerotizzare, basti pensare alla sorte de L’Indipendente di Giordano Bruno Guerri, troppo avanti pure lui. Ora sento dire che Flavia Perina sta per perdere la direzione de Il Secolo d’Italia: si sarebbe spinta troppo avanti. E dire che le poche volte che ho letto il giornale sotto la sua direzione mi è parso organo finiano più dello stesso Fini, dunque destinato ad essere riposizionato alla prima difficoltà che Fini avrebbe incontrato sul suo cammino. E così è stato. A volere il licenziamento di Guerri fu – in pratica – Italo Bocchino, a volere quello della Perina?
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