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Il talk show dei poeti estinti: delirante dibattito sul senso della poesia

Da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali
Gesualdo_Bufalinodi Umberto Scopa. Dire cos’è la poesia con una frase è una tentazione che può anche avere un suo fascino indipendentemente dal risultato. Se ci fosse poesia nella nostra vita non avremmo forse il desiderio, che talora ritorna, di afferrarla con una definizione, una formuletta efficace che si adatti ad ogni sua espressione. Se ci fosse poesia in giro come l’aria che si respira basterebbe respirarla senza alcun bisogno di appropriazione. Ma così non è. Se il bisogno talora si riacutizza, occorre dire che tuttavia gli anticorpi contro tale bisogno sono sempre più diffusi come in una sorta di vaccinazione di massa; in ogni modo quando l’anticorpo cede il passo al bisogno di afferrare la poesia con poche battute occorre ammettere che questo bisogno per lo più non è molto elevato, essendo indotto più che altro dal desiderio di trovare quell’ “uovo di Colombo” che riempie di improvviso e inatteso stupore chi ci ascolta distrattamente. Girano in materia un’infinità di risposte alla stessa domanda “cos’è la poesia?”, nessuna di esse appagante, molte delle quali peraltro sfornate dagli stessi poeti, ma dopotutto ripercorrerle può servire se non altro a dotarci di qualche frase da sfoderare sfavillante nella nostra conversazione che sempre più langue di faville e colpi ad effetto da quando imperversano “i grandi fratelli”, “i pacchi”, le isole dei famosi, che assorbono l’interesse generale.

I più confusi su cosa sia la poesia, come anticipavo, sembrano essere per l’appunto i poeti, anche quelli ritenuti grandi e questo è già scoraggiante.

Se confrontiamo i loro tentativi di descrivere l’arte poetica con poche battute ce ne rendiamo conto, perché ne sentiremmo di tutti i colori. Ed è quello che sto cercando di fare in questo talk show, impresa facilitata enormemente da quel potentissimo “medium” chiamato internet in grado di evocare all’istante voci del passato di autori morti, deportandoli con fulminea prepotenza di un clic dal loro ignorato riposo ai riflettori di questo impossibile talk show, dove ognuno può prendere la parola e cercare di avere ragione sugli altri, se non altro con una battuta ad effetto che strappa un applauso più fragoroso.

Nella varietà di modi di vedere la poesia da parte dei più autorevoli pensatori c’è per esempio chi pone l’accento su una sorta di “sopraelevazione massima” della poesia, da intendersi nel senso che diventerebbe impossibile quando si è toccata la vetta, che per definizione la poesia tocca, andare ancora più in alto. Giacomo Leopardi, difficile da contraddire se non fossimo appunto in un talk show, sostiene che nella vita dell’uomo dai tempi di Omero tutto è progredito, ma non la poesia. Insomma la poesia non avrebbe molti margini di miglioramento, come se alle olimpiadi da oltre duemila anni non fosse possibile superare il record già stabilito nei cento metri piani, forse per la grandiosità del record, forse per la pochezza degli atleti sopravvenuti. Sulla difficoltà di eguagliare i fasti del passato interviene nel dibattito lo scrittore Gesualdo Bufalino con la sua affermazione provocatoria che “certi poeti moderni fanno pensare a ragni ubriacati con l’LSD”. Una frase indubbiamente forte, mitigata dalla frase, sempre sua, che in fondo “tutti al mondo sono poeti… – ma poi aggiunge – .. perfino i poeti”.

Leopardi voleva sottolineare la grandezza degli antichi, Bufalino la pochezza dei moderni, ma sono dettagli, perchè sotto i riflettori del talk show è meglio allearsi senza troppe sottigliezze distintive quando si condivide la strada maestra, in attesa dei veri agguati dagli altri ospiti che non tarderanno a manifestarsi.

Ad accusare Leopardi di esagerazione potrebbe insorgere a questo punto Elias Canetti. Del resto è sua l’affermazione che “il poeta vive di esagerazioni” e chi potrebbe negare a Leopardi il titolo di poeta per eccellenza e quindi massimo esponente di questa “virtù esageratoria”? Se la poesia è esagerazione dunque come non potrebbe essere contaminato da questa deformazione anche il giudizio che il grande poeta dà della poesia? Aggiungerebbe poi Canetti, attingendo ad un’altra sua affermazione nota, che il poeta si fa apprezzare solo attraverso “fraintendimenti”. Qui Canetti e Leopardi sembrano stemperare la tensione del dibattito trovando un punto di accordo che non giova all’”ascolto”. Essere fraintesi sembra un prerogativa condivisa della figura del poeta; peraltro non mi risulta che ci si siano poeti dispiaciuti di essere stati fraintesi, né dispiaciuti di essere stati apprezzati, benché fraintesi.

Del tutto pessimista sulla possibilità di essere apprezzati a dovere con la poesia è invece Cesare Pavese che occorre chiamare in causa per sentire anche la sua voce. Con la sua dimessa e arguta indole osserverebbe, come in vita ha fatto, che “far poesie è come far l’amore, non si saprà mai se la propria gioia è condivisa”. Da buon conduttore potrei accendere la polemica abbassando ad arte il livello della conversazione e così rinfacciare a Cesare Pavese una inconscia misoginia sottintesa al suo aforisma: intendo che solitamente nell’atto amoroso è l’uomo a non sapere se la sua gioia, quella che non si può dissimulare, è condivisa mentre la donna nel bene o nel male lo viene sempre a sapere. Sorvolo su questo colpo davvero basso. Si intravede però nella frase di Pavese una gioia che l’autore attribuisce al compimento dell’atto creativo, pur avvertendoci del rischio di non poter condividere tale gioia. A guastare questo fugace momento di letizia interviene lapidario Franz Kafka affermando che “poesia è malattia”. Poche storie, tre parole che non ammettono replica. Tale è la sua concezione della poesia espressa in questa nota frase. Altro che gioia. Se la poesia è malattia, così a scanso di equivoci, non possiamo fare un motivo di biasimo della non condivisione altrui. Il poeta Kafkiano è un viandante incappucciato con un campanaccio al collo e soltanto scoprendo che la sua dubbia malattia è infettiva può sperare di condividere l’intimo suo sentire con qualcuno. Brutta storia.

Charles Bukowski potrebbe ora prendere la parola mitigando però l’immagine di questo sciagurato destino Kafkiano del poeta. Potrebbe farlo ripescando una sua nota frase per la quale il limite del poeta sarebbe appunto quello di non essere in grado di vivere le poesie che invece non ha difficoltà a scrivere. L’impossibilità di vivere la poesia, sarebbe quasi un sollievo applicando l’affermazione alla visione di Kafka. Ma ho stravolto di certo il senso della frase di Bukovski il cui vero senso è più vicino alla denuncia di quel difetto dell’uomo del “predicare bene e razzolare male”, se mi si può perdonare la banalizzazione. Ma anche Kafka forse era stato da me volutamente frainteso, come ogni poeta merita (e lo dico ammiccando sapientemente a Canetti che ricambia). Sì, perché l’idea di malattia allude, oltre che alla sofferenza, ad uno stato febbrile che si impossessa di noi inerendo alla nostra persona e guidandoci nel processo creativo. Allude anche ad una certa vulnerabilità del poeta laddove gli individui comuni si sono sapientemente dotati di anticorpi ben più resistenti a presidio delle loro salute contro le insidiose minacce della poesia.

Ma i poeti talora non disdegnano proprio il fascino di questa loro debolezza che li rende inesorabilmente sottomessi alla loro arte. Come afferma una frase scritta da Oscar Wilde e ne “Il ritratto di Dorian Gray” “il più grande messaggio dell’artista è farci comprendere la bellezza della disfatta”. Del tutto opposta la visione di Filippo Tommaso Marinetti, che animato dal sua entusiasmo futurista, a voce ben sostenuta, riprende una sua affermazione nota: “la poesia deve essere concepita come un violento assalto contro le forze ignote per ridurle a prostrarsi davanti all’uomo”. Altro che far comprendere la bellezza della disfatta. Qui squillano le trombe della riscossa verso la vittoria definitiva, la vittoria delle vittorie, con l’arma finale della poesia.

Ma non sarò una guerra lampo, e questo lo sapeva – in fondo- anche Marinetti.

Featured image, Gesualdo Bufalino


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