Verso la fine delle scuole elementari mi era capitata per le mani una riduzione de “La scoperta di Troia” di Schliemann. A parte il fascino della storia di un uomo che insegue un sogno a tutti i costi, non smettevo di rileggere le pagine in cui l’autore descriveva come si era imparato, da autodidatta, una ventina di lingue. Ancora oggi, quando incontro qualcuno che è in grado di conversare in più idiomi, io sbavo. Invidia, ammirazione, idolatria. Ai miei occhi appare non solo come uno/una in gamba: in genere i poliglotti amano anche le parole, sono mentalmente curiosi e hanno voglia di conoscere persone, usi e costumi degli altri popoli, vicini e lontani. E, se avete mai provato a fare un biglietto per il treno in una stazione russa o a cercare la carta igienica in un mercato turco, capirete cosa intendo quando penso che si evitino parecchie frustrazioni.
Appurata questa mia propensione – ognuno ha diritto alle proprie manie – ho cominciato ad occuparmi di me stessa. Il francese mi è capitato tra capo e collo alla scuola media ma non mi suona granché estraneo, per cui siamo andati d’amore e d’accordo. A distanza di anni, probabilmente perché le cose che impari con i neuroni vispi non le dimentichi, ripesco facilmente, quando serve, il mio francese passe-partout. Tanto i francesi sono gentili, da questo punto di vista, e apprezzano lo sforzo.
L’inglese non è stata una scelta, ma una tappa obbligata dell’università. Un ingegnere giovane e in carriera (beate illusioni) che non sa l’inglese? Impossibile. E allora giù, in immersione tra grammatiche, film, libri. Mentre cercavo il bandolo della matassa, mi sono innamorata. Che vi devo dire…ad un certo punto mi è sembrata una lingua bellissima, con un vocabolario di sfumature infinite ed una grammatica non troppo ostica. Ed è tutto diventato molto più semplice. Peccato che, usandolo per lavoro per parlare con persone che non sono di madrelingua inglese, non essendo mai stata per più di una settimana di fila in Inghilterra, risultando sprovvista di inglesi e americani che stazionino in questa valle remota, io sia convinta di parlare inglese ma, in realtà, mi esprimo con quel basic english di bassa lega che regala, però, tante soddisfazioni. E illusioni. E a Londra faccio scena muta, perché mi vergogno e mi vengono i complessi di inferiorità. Gli inglesi, a differenza dei francesi, fanno di tutto per non apprezzare lo sforzo.
Lo spagnolo è stata una storia di bassi istinti. Deciso con amici di farci un viaggio a Cuba e poi uno in Centro America, ci era sembrata una buona idea imparare quelle quattro frasi da turista e ci siamo iscritti ad un corso serale per adulti. L’insegnante era veramente bravo. L’insegnante aveva, anche se ai tempi non si diceva così, un lato A decisamente gradevole. L’insegnante aveva un lato B strepitoso: quando scriveva alla lavagna l’aria si faceva immobile. Non stiamo ad interrogarci sulle motivazioni. L’importante è il risultato, no? Teneva cinque corsi a settimana, tutte le sere. C’era il pienone di donne. Ha contribuito all’innalzamento del livello di cultura di una certa fascia di popolazione locale. Fino ad un certo punto, poi, lo spagnolo va giù facile come un bicchiere di orzata. Zucchero. Io sono al livello appena precedente a quello in cui si cariano i denti e cominciano a fare male. Diciamo che tra spagnoli faccio la mia figura, a chiacchiere, ma quando devo scrivere una email agli amici ci metto più che a tradurre una versione dal greco.
E veniamo ai giorni nostri: da tre anni, ormai, sono alle prese con il tedesco. L’ho iniziato quattro volte, credo. Ogni volta mi fermo dopo pochi concetti. L’azienda mi offre il corso, sarebbe utile se lo parlassi: è da pirla non approfittare. Eppure arrivo alla lezione quasi del tutto impreparata, accampo mille scuse, mi arrampico sui vetri. Manca appena che dica alla profe che mi è morto il gatto. Non va giù, non procedo, non memorizzo. Non arriva nemmeno vicino alla corteccia cerebrale: metto in atto un meccanismo di rifiuto inconscio di cui non capisco i motivi. Prendete adesso: tre settimane a casa in mutua senza potermi muovere. Passi la prima, ancora sotto i fumi del Toradol. Ma nella seconda e nella terza, qualche ora a studiare tedesco potevo farla saltare fuori, no? Adesso si avvicina il tempo del rientro e della prossima lezione e io ci penso tutto il giorno, che devo studiare. Mi sveglio la mattina già con i complessi di colpa. E poi faccio melina. Manca appena che vada a recuperare le Barbie in solaio e mi metta a vestirle e a pettinarle e poi me le sono inventate tutte per non aprire i libri. Sono preoccupata. Cosa è? E’ colpa del tedesco o sono i primi sintomi dell’invecchiamento? No dai. E’ ancora presto. E adesso che faccio? Qualcuno mi manda un bigino?