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Il tempo atletico

Creato il 23 febbraio 2011 da Fabry2010

di Carla Saracino

La meraviglia è certamente una delle forme anteriori dell’amore, tutto quello che prima ci riguarda di una persona o di una cosa e tutto quello che prima ci prepara alla vita. La sua radice originaria comporta qualcosa di visivo. Sarebbe un guardare. In un’accezione meno compressa, potremmo dire che meraviglioso è ogni incondizionato atto di rinuncia al pregiudizio e quindi disposizione al chiedere e al dare ospitalità, ma in senso altamente figurato.

L’ultimo libro di Andrea Leone, Lezioni di crudeltà, Poiesis, pag. 63, euro 12,00, è attraversato dalla meraviglia, ma non convulsamente né, al contrario, passivamente. Un ordine rigoroso detta alla meraviglia i suoi passi affinché essa, sgretolandosi l’incubo del postmoderno, possa rifulgere attraverso un nuovo linguaggio nel mondo delle cose possibilmente inviolate e quindi integre.

L’ordine è tracciato dall’autore che non abbandona mai la presa sulla materia poetica, non ce la offre in un incarnato tiepido e morale, non ce la porge sotto le vesti di un diario autobiografico o di una didascalia sociale, ma l’accompagna essendole da sempre stato di fianco (non un attimo prima né un attimo dopo).

Non è casuale il titolo: questo è un libro meraviglioso, ma anche impositivo. E’ un libro che impone un suo modo verbale e pretende che il lettore lo rispetti senza troppe concessioni d’interpretazione; è un libro che impera nel suo stesso inchiostro; il suo stesso essere stato scritto, probabilmente, è avvenuto dietro un imperativo.

Anche i luoghi fisici di Leone sono attestazioni dello spazio e quindi prove di comando esercitato su di esso. Locande, numeri civici esatti, Caffè, piazze, ovvero luoghi della dispersione “scelta” perché prevista; luoghi senza vergogna, impudici e rivelanti; luoghi generosissimi nella misericordia del loro essere vani.

Ugualmente, protagonista di queste pagine è la vocazione dell’autore a un tempo che mi piace definire “atletico”. Non si tratta del tempo disancorato della contemporaneità in cui le cose vagano come schegge impazzite nella frammentazione del linguaggio e dell’immaginario; in cui le personalità sono celebrazioni scoppiate sul buio; in cui i sentimentalismi, come burattini ingozzati dal cibo delle domeniche, ballano sui tavoli traballanti delle meccaniche del retro-pensiero. Qui si tratta di un tempo che sta gareggiando per vincere, che ha indossato la sua concentrazione e che sta flettendo gli arti affinché la vittoria diventi la verità dell’appartenenza a se stessi. E nell’appartenenza a se stessi, è noto, c’è sempre giovinezza, laddove per essa s’intenda quel raggiungimento di conoscenza tale per cui ogni cosa e il suo contrario possono tentare di invaderci senza che nessuno dei due riesca mai pienamente a prevalere e a offendere la beltà di quel che siamo stati, siamo, continueremo ad essere.

In questo senso il progetto del libro è un fine di giovinezza. E aggiungerei, per conseguenza naturale, di bellezza.

In opposizione al tempo umano, subissato dall’incoerenza e dalla volgarità del doversi sempre spacciare per quello che non si è, Leone propone un tempo atleticamente disposto alla gara, all’antica gara, a quella che quanto più avanza tanto meglio progredisce. E se è vero che normalmente la morte ci consuma ed erode i nostri istanti turbandoli nel quotidiano come nel sogno dell’avvenire, nei versi di Leone è la bellezza a falciare la fine e non viceversa.

La vera morte, in Leone, è la bellezza, perché legata a un concetto di epos della nostra vita che si specchia nella parola e che per indugiare in essa, per prendersi il privilegio di indugiare, deve crudelmente avanzare verso l’annientamento di ciò che,  altrimenti, non si avrebbe il coraggio di vedere.




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