Secondo tassello della cosiddetta “trilogia del lutto” cominciata con Sotto la sabbia (2000) e chiusasi egregiamente con Il rifugio (2009), Il tempo che resta è un’opera forte e delicata, sofferente e stoica. Con fare asciutto e toccante il regista francese affronta nuovamente il tema della morte, in questo caso vicina, vicinissima, più che mai inevitabile e non procrastinabile. Il cancro che logora Romain è un Tempo che scorre via senza impedimenti. E l’ironia della sorte (e del cinema) vuole che colpisca un fotografo, ovvero colui che per passione e professione è abituato a fermare il panta rei della vita, ad immortalare l’attimo per renderlo eterno. La malattia infrange tutto ciò, relegando la vie in scatti da fotocamera digitale che forse mai verranno stampati per non ingiallire, deperire, morire anch’essi.
La fine (quasi) imminente spinge Romain (un poetico e mai patetico Melvil Poupaud) a mettere ordine nella sua vita. E’ così che riscopre il calore di un abbraccio col padre (un intenso e moderato Daniel Duval) o trova affetto e protezione nel dormire nello stesso letto con la cara nonna (una magnifica Jeanne Moreau) proprio come faceva da bambino. Ed è all’infanzia che torna continuamente la sua mente. Si rivede innocente e riccioluto più e più volte: allo specchio, nei giochi dei bambini sulla spiaggia, nella memorabile zingarata dei fanciulli birichini in chiesa.
Ma giunti ai titoli di coda, quando Romain, magro e contento, rimarrà isolato e spiaggiato, sentiamo che la morte non ha vinto. Le temps qui reste si riscatta come un possente inno alla vita nelle mai volgari né scandalose scene d’amore e di sesso del protagonista col partner, nei loro nudi audaci e casti, nella concessione del suo seme vitale ad una sconosciuta coppia sterile (in cui troviamo una convincente prova attoriale di Valeria Bruni Tedeschi). Il percorso verso la morte si trasforma così in una vera e propria rieducazione sentimentale e personale, in una dolente e commovente riapertura verso gli affetti.
Nel raccontarci tutto questo lo sguardo di Ozon è sempre lucido e mai melenso. La morte è un dramma che sconvolge con compìti e trattenuti occhi lustri, evitando capelli strappati. Ozon non strazia e non esaspera scegliendo un tono generale distaccato ma partecipe. C’è rispetto verso il “fatto privato” (si è pur sempre al cinema!) di una morte annunciata e accettata.
Insomma, Il tempo che resta conferma come François Ozon sia un autore vero, dotato di una poetica e un’estetica definite e pregiate, capace di coglierci sempre di sorpresa e affascinarci nel profondo.