«… Si potrebbe confrontare la vita con una stoffa ricamata della quale ciascuno nella prima metà dell’esistenza può osservare il diritto, nella seconda invece il rovescio: quest’ultimo non è così bello, ma più istruttivo, perché ci fa vedere l’intreccio dei fili»
(Arthur Schopenhauer, Aforismi sulla saggezza del vivere)
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di Giuseppe Panella*
1. Il tempo alla fine
«L’anno in cui ho lavorato su Alla ricerca del tempo perduto è stato il miglior anno di lavoro della mia vita» (1). E’ una dichiarazione molto significativa e del tutto probante.
Quella di Pinter è un’espressione di felicità che intreccia produttività letteraria ad ermeneutica del testo: trasformare Alla ricerca del tempo perduto in una sceneggiatura è stato, per il compianto commediografo inglese, il modo più adeguato di “capire” il testo, decostruirlo, riscattarlo dalle zone d’ombra della sua incomprensione possibile. Una forma di lettura “interna”.
L’inizio dello screenplay è comunque folgorante:
«1. Schermo giallo. Suono della campanella di un cancello di giardino.
2. Aperta campagna, un filare di alberi visto da una carrozza ferroviaria. Il treno è fermo. Nessun suono. Rapida dissolvenza.
3. Per un attimo schermo giallo.
4. Il mare, visto da una finestra in alto, un asciugamano appeso ad un porta-asciugamani, in primo piano. Nessun suono. Rapida dissolvenza.
5. Per un attimo schermo giallo.
6. Venezia. Una finestra di un palazzo vista da una gondola. Nessun suono. Rapida dissolvenza.
7. Per un attimo schermo giallo.
8. Sala da pranzo a Balbec. Nessun suono. Vuota.
9. Esterno, Casa del principe di Guermantes. Parigi. 1921. Pomeriggio.
In campo lungo, un uomo di mezza età (Marcel) avanza verso la casa del Principe di Guermantes. Cammina curvo, il suo atteggiamento è quello di un vinto» (2).
Tutto il tessuto narrativo e rappresentativo della Recherche è già in questa pagina iniziale.
Il metodo proustiano di rappresentazione metaforico-cognitivo è ben presente nella scelta fatta da Pinter per l’incipt del futuro film di Joseph Losey che avrebbe dovuto essere realizzato nel 1972 (pellicola che, purtroppo, non è mai stata prodotta ancora).
La sceneggiatura prosegue alternando scene della festa in casa del principe di Guermantes con visioni di situazioni apparentemente minime ma significative (il cucchiaio che urta contro un piatto per colpa di un gesto inavvertito di un cameriere, i volti grotteschi e assurdamente invecchiati degli ospiti, le tubature dell’acqua che fanno avvertire la propria presenza). Infine un evento significativo e una prima parziale evidenza di consapevolezza in atto:
«18. Tubature d’acqua nella biblioteca.
Rumore fastidioso di acqua che scorre nelle tubature.
19. La campagna silenziosa vista dalla carrozza ferroviaria.
20. Esterno. Casa del Principe di Guermantes. 1921.
Una macchina sterza per evitare Marcel. Egli fa un passo indietro, inciampa nell’acciottolato.
L’autista gli grida dietro.
21. La sala da pranzo a Balbec. Nessun suono.
22. Schermo giallo.
La macchina da presa indietreggia fino a mostrare che lo schermo giallo è in realtà un’ala di muro giallo in un quadro. Il quadro è la Veduta di Delft di Vermeer»(3).
Si tratta della sezione de Il Tempo ritrovato che contiene la descrizione della festa a casa del Principe di Guermantes dove l’impossibilità per il Narratore di entrare nel salone centrale nel quale si sta tenendo un concerto confina il personaggio principale all’interno della biblioteca e lo stimola ad una serie di importanti riflessioni. Dopo aver inciampato in una selce meno alta delle altre tra quelle che pavimentavano il selciato dell’ingresso del palazzo Guermantes, il Narratore ha provato una forte sensazione di felicità e ha rivissuto tutta una serie di esperienze e di ricordi legata alla sua vita precedentemente vissuta. E’ un passo assai noto ma vale la pena di ripercorrerlo ancora:
«Così mi sforzavo di veder chiaro il più in fretta possibile nella natura dei piaceri identici che avevo provati per tre volte nel giro di pochi minuti, e poi di capire quale insegnamento ne dovessi trarre. Non mi soffermavo sull’enorme differenza che c’è fra l’impressione vera avuta d’una cosa e l’impressione artificiosa che ne diamo a noi stessi quando cerchiamo volontariamente di rappresentarcela; ricordando bene con quale indifferenza relativa Swann aveva potuto parlare, un tempo, dei giorni in cui era amato, perché sotto quella frase egli vedeva qualcosa di diverso da essi, e il dolore repentino suscitato in lui dalla piccola frase di Vinteuil che gli restituiva invece quegli stessi giorni quali li aveva allora sentiti, capivo sin troppo bene che quanto la sensazione delle selci ineguali, la rigidità del tovagliolo, il sapore della madeleine avevano risvegliato in me non aveva alcun rapporto con quanto io cercavo spesso di ricordarmi di Venezia, di Balbec, di Combray con l’aiuto d’una memoria uniforme; e capivo come la vita potesse venir giudicata mediocre, sebbene in altri momenti apparisse così bella, giacché nei primi la si giudica e la si svaluta su tutt’altro che sulla vita stessa, su immagini che della vita non serbano nulla. […] Sì, se il ricordo, grazie all’oblio, non ha potuto contrarre nessun legame, gettare nessuna catena fra sé e l’istante presente, se è rimasto al suo posto, alla sua data, se ha mantenuto le sue distanze, il suo isolamento nella profondità d’una valle o in cima ad una vetta, ci fa respirare di colpo un’aria nuova per la precisa ragione che è un’aria respirata in altri tempi, quell’aria più pura che i poeti hanno cercato invano di far regnare nel paradiso e che non potrebbe dare la sensazione profonda di rinnovamento che ci dà se non fosse già stata respirata, giacché i veri paradisi sono i paradisi che abbiamo perduti»(4).
L’ air pur respirata dai poeti è, in realtà, quel senso stesso del Tempo che solo la scrittura può contribuire a rendere comprensibile e intuibile in circostanze particolari. Il ricordo è il frutto della sua (temporanea) mancanza e della sua improvvisa riemergenza per attimi e insorgenze apparentemente minimali ma fondate sulla loro qualificazione assoluta di verità. Sulla base di esso, il Tempo si riqualifica e si sostanzia della sua capacità di mostrarsi nella sua purezza immediata, fulgurante, definitiva. Tale purezza sarà la valutazione finale di ciò che è definito come “essenza finale” della ricerca e come suo obiettivo a prescindere dagli incidenti che la costellano.
Così nella sceneggiatura di Losey, da ora in poi, dopo ancora un breve alternarsi di brevissime sequenze di luoghi (Balbec, Combray, alberi, campanili, il cancello del giardino di Combray più volte), la narrazione inizia proprio a partire dal 1888 con Marcel ragazzo di otto anni e il padre e la madre che discutono del musicista Vinteuil, di sua figlia e dell’amica intima della figlia insieme a Charles Swann…
Quando poi la sceneggiatura sembra che stia per finire terminando la narrazione, in realtà, si ricomincia, anzi si comincia per davvero:
«La signorina di Saint-Loup sorride e china il capo. Marcel la guarda. Improvvisamente tutti i rumori nella stanza cessano. Si vede la signorina di Saint-Loup che parla, sorridendo. Su questa inquadratura sentiamo la campanella del giardino di Combray, “trabalzante, ferrigna, interminabile, stridula e fresca”. Lo scampanellio continua sulle inquadrature che seguono.
444. La sala ampia, la moltitudine di gente che parla.
Nessun suono.
445. La signorina di Saint-Loup, sorridente.
446. Gli alberi a Hudimesnil.
447. I campanili a Martinville.
448. Breve immagine di schermo giallo.
449. Il fiume Vivonne, a Combray.
450. I tetti di Combray.
451. Il giardino di Combray, la sera.
452. La campanella al cancello del giardino.
453. Swann apre il cancello del giardino e se ne va.
454. Marcel bambino guarda fuori dalla finestra della sua camera da letto.
Lo scampanellio cessa.
455. Veduta di Delft di Vermeer.
La macchina da presa muove velocemente verso l’ala di muro giallo nella pittura. Schermo giallo.
VOCE DI MARCEL (fuori campo) Era il momento di incominciare»(5).
Il tempo si è fermato e, dunque, per questo motivo, il Racconto comincia… per interrompersi quando il tempo si sarà di nuovo rimesso in moto.
2. Il tempo all’inizio
Da dove e come inizia il Tempo? Dalla sua posizione all’interno dello spazio occupato da coloro che lo contengono e lo definiscono. Quando essi lo abbandonano, esso si ritira. La Morte è la fine del Tempo e lo consegna, inalterato, al giudizio di coloro che verranno. C’è chi è in grado di coglierne i segni e di manifestarli mediante la propria attività di controllo e di relazione, di restituzione dei suoi passaggi e di analisi delle sue modificazioni:
«La spia resta in piedi, immobile, per rilevare dei piani segreti, il depravato a spiare una donna, certi uomini posati si fermano ad osservare i progressi di una nuova costruzione o di una grandiosa demolizione. Ma il poeta resta fermo davanti a tutte quelle cose che non meritano l’attenzione dell’uomo posato, di modo che ci si chiede se sia un innamorato o una spia e, quando pare che da molto tempo stia guardando un albero, ci si domanda che cosa guardi in realtà»(6).
Il poeta, a differenza della spia o del guardone o dell’uomo posato, osserva i segni del Tempo. O meglio – per dirla con il giovane Debenedetti di una sua conferenza proustiana del 1928 (7) – si fa guardare da essi, anzi si fa cercare e individuare da essi. Il riferimento è al celebre aneddoto riportato da Reynaldo Hahn e riferito a Proust che si ferma insieme ad altri, mentre sta passeggiando in campagna dove è ospite da un’amica, ad osservare con intenzione profonda un’aiuola di rose del Bengala:
«Con il secondo atto la scena si sposta di tre anni, al 1928, quando al “Circolo del Convegno” di Milano un giovanissimo critico commemora Marcel Proust. Agli ascoltatori Debenedetti racconta l’aneddoto di Hahn, dopo avere dichiarato, con discreta impertinenza in tempi di giurisdizione crociana, che “la vita di Proust ci può veramente illuminare sulle forme del romanzo”. E commenta: “l’atteggiamento di Proust, fermo con attenzione appassionata davanti le rose del Bengala, non ci deve trarre in inganno. Qui non è un Proust, che si stacchi dal compagno e dai rapporti della vita cotidiana, per concentrarsi e cercare l’essenza di quelle rose: anzi, all’opposto, è uno che si espone a farsi cercare dall’essenza delle rose. O meglio – perché in questo “farsi cercare” è contenuta un’idea ancora troppo pronunciata di attività – è un Proust, che si abbandona a lasciarsi tentare e sedurre dall’essenza di quelle rose”»(8).
Dunque Proust si lascia avvicinare dalla bellezza e dal profumo di quelle rose del Bengala perché esse possono condurlo alla loro essenza come conferma della verità del mondo.
Nella sua ottica ciò che si guarda coincide con la forza interiore di ciò che è e che solo in questo modo può palesarsi. Lo sguardo alla ricerca dei segni “veri” si conforta della speranza di ritrovarli nei corpi e nei volti e negli oggetti che scruta ma solo lo sguardo del poeta è in grado di farlo davvero. I segni della vita non valgono quelli dell’arte – tutta la Recherche starebbe a dimostrarlo. Non si scrive per ricordare ma per spiegare, per capire, per confortarsi di aver fatto tutta una serie di giuste deduzioni. Soprattutto si scrive per non essere più condannati a ricordare, per vincere l’oblio con i suoi propri mezzi. E’ questo il significato della petite phrase – qualcosa che ritorna costantemente ma che non esaurisce la natura della conoscenza e del sogno. Trovare la petite phrase a sostegno della propria esistenza artistica significa cogliere nello stile una possibilità assoluta di conoscenza del reale, della sua consistenza fluida e inafferrabile.
L’essenza delle cose coincide con la sua ricerca ma la sua ricerca non avviene se non nel momento in cui è possibile che questo avvenga – la madeleine, l’asciugamano, le torri, il tintinnio ecc. non vengono cercate ma solo ritrovate. E’ questo uno dei significati della felicità per Proust.
I segni – come ha mostrato eccellentemente Gilles Deleuze – non sono tanto le tracce quanto i ricordi, le reminiscenze del presente. Le opere d’arte sono fatte di esse e si ritrovano in esse. Ciò che conta non è tanto la memoria quanto l’oblio da cui le reminiscenze riemergono in quanto reali e fondative il percorso futuro. Il giallo del quadro di Vermeer, gli alberi e i campanili dei diversi paesaggi attraversati e resi noti ecc. ecc. non sono la verità della memoria ma solo la sua metafora vivente, il suo corpo recuperato in maniera non automatica ma involontaria. La memoria esiste solo per chi si dimentica di possederne una. Ritrovare il Tempo significa ri-costruirlo a partire dalla memoria e i suoi segni intrinseci e compiuti:
«Spesso Proust presenta i segni della memoria come decisivi; le reminiscenze gli sembrano costitutive dell’opera d’arte, non solo nella prospettiva del suo progetto personale, ma anche per i grandi precursori, come Chateaubriand, Nerval o Baudelaire. Ma se le reminiscenze si integrano nell’arte come parti costitutive, ciò avviene piuttosto nella misura in cui esse sono elementi conduttori, capaci di guidare il lettore alla comprensione dell’opera e di portare l’artista a concepire il proprio compito e l’unità di tale compito. “Del fatto che fosse proprio e soltanto quel genere di sensazioni a condurre all’opera d’arte, io dovevo cercar di trovare la ragione oggettiva”. Le reminiscenze sono le metafore della vita; le metafore sono le reminiscenze dell’arte. Le une e le altre hanno infatti qualche cosa in comune: determinano un rapporto tra due oggetti completamente differenti, “per sottrarle alle contingenze del tempo”. Ma solo l’arte compie pienamente ciò che la vita ha appena abbozzato. Le reminiscenze della memoria involontaria sono pur sempre vita: arte a livello della vita, quindi cattive metafore. Invece l’arte nella sua essenza, l’arte superiore alla vita, non riposa sulla memoria involontaria; e neppure sull’immaginazione e sulle figure incoscienti. I segni dell’arte si spiegano mediante il pensiero puro come facoltà delle essenze. Quanto ai segni sensibili in generale, sia che si rivolgano alla memoria, sia anche all’immaginazione, dobbiamo dire da un lato che precedono l’arte e che la loro funzione sta solo nel guidarci ad essa; dall’altro che vengono dopo l’arte e ne captano solamente i più vicini riflessi»(9).
I segni sono, dunque, soltanto propedeutici ma risultano fondamentali quali espressioni dell’emergenza dalla profondità del reale. Senza di essi non si saprebbe che cosa pensare della donna amata e capire se ci tradisce o meno, ad es., oppure come comportarci con il conversatore mondano che ci mostra un viso assuefatto alla menzogna ma che non può (o sa) simulare fino in fondo la disapprovazione o il piacere nel vederci. Senza di essi, Albertine non rivelerebbe all’improvviso il disagio della colpa sentita come scacco profondo o i Guermantes non si rivelerebbero i maestri che sono della vita mondana. I corpi portano su di sé i segni ed è rispetto ad essi che vanno individuati. Ma bisogna andare al di là – se è possibile. I segni conducono alle essenze, a quell’ air pur di cui la verità può essere respirata. Inoltre, il contatto con la dimensione estrema dell’arte trasforma queste ultime in un solido tentativo di andare al di là del tempo perduto, alla ricerca di un tempo possibile da ritrovare. Il Tempo passa per tutti ma non per il poeta:
«Vi sono segni che ci costringono a pensare il tempo perduto, e cioè il passaggio del tempo, l’annientarsi di ciò che fu, l’alterarsi di ogni essere. Rivedere persone che ci furono familiari è una rivelazione, perché il loro volto, non essendoci più abituale, porta allo stato puro i segni e gli effetti del tempo che ne ha modificato un certo tratto, prolungato, ammorbidito o compresso un altro. Per diventare visibile, il Tempo “va in cerca di corpi e, dovunque li incontra, se ne impossessa per mostrar su di loro la propria lanterna magica”. Alla fine della Recherche, tutta una galleria di volti appare nelle sale dei Guermantes. Ma se avessimo fatto il necessario tirocinio, avremmo saputo fin dall’inizio che i segni mondani, grazie alla loro vacuità, tradivano qualcosa di precario, ovvero già si irrigidivano, si fissavano per nascondere la loro alterazione; perché la mondanità è in ogni istante alterazione, mutamento. “Le mode cambiano, nate come sono dal bisogno di cambiamento”. Alla fine della Recherche, Proust ci mostra quanto profondamente la società sia stata trasformata dal processo Dreyfus, poi dalla guerra, ma soprattutto dal Tempo. Ma, invece di trarne come conclusione la fine di un “mondo”, comprende che il mondo da lui conosciuto e amato eras già di per sé alterazione, mutamento, segno ed effetto di un Tempo perduto (anche i Guermantes non hanno di permanente che il nome). Proust non concepisce affatto il mutamento come una durata bergsoniana, ma piuttosto come una defezione, come una corsa verso la morte»(10).
I segni della mondanità e quelli d’amore preparano per loro stessa natura alla morte; quelli dell’arte no – sono fatti per durare e cercare di farsi duraturi. Il Septuor di Vinteuil ne è il simbolo (11): compare e scompare continuamente nel romanzo ma resta inalterabile e felice forma di differenza tra il mondo delle note e quello degli uomini che lo ascoltano, scansione forse assoluta (schopenhauerianamente) della verità della Musica. La capacità dell’arte di rintracciare attraverso il coacervo dei segni incomprensibili che vanno decifrati sui volti e sui corpi e nelle pratiche sociali e umane che si è costretti a condurre senza sapere bene dove conducano salva la differenza esistente in essi e libera dalla caducità quelli che sono capaci di condurre verso una salvezza ancora solo intuibile:
«E’ il Narratore stesso, nel Temps retrouvé, a sottolineare ciò che divide questi due momenti conoscitivi, affidando al déchiffrement l’area delle passioni e dei vizi, lo smascheramento degli automatismi psicologici apparentemente casuali, e alla metafora la resurrezione dei momenti privilegiati di cui l’infantile comunione con la figura materna, suggellata dalla lettura di François le Châmpi, resta l’immagine più emblematica. Ma se abbandoniamo per un attimo la riflessione teorica del Temps retrouvé – le cui lacune testuali, d’altronde, paiono lasciare nell’ombra, più d’ogni altra cosa, proprio il nesso profondo tra metafora e déchiffrement – per volgerci alla Recherche nel suo complesso, non possiamo non constatare un evidente parallelismo, all’interno dell’universo proustiano, tra l’accaderedell’intuizione analogica e il procedere del sapere indiziario»(12).
La metafora è, dunque, funzione della conoscenza del Tempo attraverso il tempo stesso.
Io non so se in Proust si possa ritrovare (o pre-vedere) una sorta di “sapere indiziario” dello stesso tipo di quello preconizzato da Carlo Ginzburg in un suo celebrato saggio(13) ma mi sembra probabile di no. Non c’è traccia di ricerca di indizi in Proust ma solo di ricordi e reminiscenze.
E’ più semplice pensare, sulla scia di un passo di Deleuze dal suo libro già citato(14), ad un approdo ad un tempo originario e remoto dal quale il tempo quotidiano, destinato ad essere perduto, attinge la propria verità che, però, torna sempre ad essere assorbita da esso.
E’ in questo nesso tra finalità artistica e segni del quotidiano, tra Natura e Arte, che si innesta il problema della conoscenza e della verità artistica in quanto scopo assoluto della Vita.
Scrive ancora Deleuze in maniera esplicita per ribadire questo concetto:
«Mais, à la fin, on voit ce que l’art est capable d’ajouter à la nature: il produit des résonances elles-mêmes, parce que le style fait résonner deux objects quelconques et en dégage une “image précieuse”, substituant aux conditions déterminées d’un produit naturel incoscient les libres conditions d’une production artistique (Temps retrouvé, vol. 2, cap. III, p. 878 e p. 889). Dès lors l’art apparaît pour ce qu’il est, le but final de la vie, que la vie ne peut pas réaliser par elle-même; et la mémoire involontarie, n’utilisant que des résonances données, n’est plus qu’un commencement d’art dans la vie, une premiere étape (Temps retrouvé, vol. 2, cap. III, p. 889) La Nature ou la vie, ancore trop lourdes, ont trouvé dans l’art leur équivalent spiritual. Même la mémoire involontarie a trouvé son équivalent spiritual, pure pensée produite et productrice. Tout l’intérêt se déplace donc des instants naturels privilégiés à la machine artistique capable de les produire ou reproduire, de les multiplier: Le Livre. A cet égard, nous ne voyons de comparaison possibile qu’avec Joyce et sa machine à épiphanies»(15).
All’emergenza involontaria del ricordo, alle reminiscenze legate ad eventi pur così distanti tra loro ma presenti, nella loro adiacenza, nella similarità che li fa sporgere dal fondo oscuro della memoria, si va a sostituire la costruzione volontaria dell’opera d’arte, della scrittura, della determinazione oggettiva della scrittura come forma finalmente non sostituibile e non riducibile del desiderio di durare, di salvare il Tempo. La moltiplicazione degli eventi naturali (e involontari) prodotti e producenti il ricordo si stratifica e si costituisce in una dimensione artistica che vuole essere se stessa in nome della sua funzione di felicità ermeneutica ed espressiva. Nel tempo ritrovato si annida la possibilità di un sogno che non può essere sognato nel mondo della realtà ma solo in quello della felicità:
«Uno scrittore può applicarsi senza timore a un lungo lavoro. Basta che l’intelligenza si metta all’opera, strada facendo sopraggiungeranno in numero sufficiente i dolori che si faranno carico di condurli a termine. Quanto alla felicità, essa ha, si può dire, una sola utilità: rendere possibile l’infelicità. Dobbiamo, nella felicità, formare legami molto dolci e molto forti di fiducia e d’affetto perché la loro rottura ci procuri quella lacerazione tanto preziosa che si chiama infelicità. Se non si fosse stati felici, sia pure solo con la speranza, le infelicità sarebbero senza strazio e dunque senza frutto. E allo scrittore, più ancora che al pittore, per ottenere volume e consistenza, generalità, realtà letteraria, occorrono molti esseri per un solo sentimento, come all’altro aver visto molte chiese per dipingerne una. Infatti, se l’arte è lunga e la vita è breve, si può dire in compenso che se l’ispirazione è breve, i sentimenti che essa deve dipingere non sono molto più lunghi. Sono le nostre passioni ad abbozzare i nostri libri, mentre la calma tra l’una e l’altra li scrive»(16).
La scrittura è il frutto dell’infelicità intervenuta alla fine di una relazione o di un sogno o di una speranza. Proprio per questo il suo risultato non può essere che una nuova felicità rappresentata dalle parole che quella felicità descrivono nel momento in cui è subentrata un’infelicità che la fa rimpiangere. Descrivere con le parole i ricordi di felicità passate nel momento in cui subentra l’infelicità è il Tempo ritrovato e assaporato della felicità che c’è stata e che, nel momento in cui si ricorda, implacabile e sognatore ritorna.
Il ritorno della felicità che non c’è più e che mai più potrà essere in quel mondo e a quel modo – ecco, questo è il Tempo ritrovato !, la sua presenza in parole nel regno degli uomini, la sua realtà nell’opera d’arte che da allora in poi tornerà per questo suo compito e tornerà ancora ogni volta che quella felicità sarà riconvocata e restituita a chi l’aveva provata nel tempo perduto…
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* Giuseppe Panella, IL TEMPO DELLA FELICITA’. Tempo ultimo e tempo dell’inizio nell’opera di Marcel Proust (e di Gilles Deleuze), in Aa.Vv., Le vie di Marcel Proust, ed. LaRecherche.it (http://www.ebook-larecherche.it/ebook.asp?Id=52), 2010
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NOTE
(1) Questa dichiarazione di Pinter è riportata nella quarta di copertina della edizione italiana del Proust Screenplay di Pinter (cfr. H.PINTER, Proust. Una sceneggiatura, trad. it. di E. Nissim e M. T. Petruzzi, Torino, Einaudi, 1987). Si ritrova poi nella Nota a p. 186 in cui Pinter spiega le ragioni e le occasioni del suo lavoro sull’opera di Proust.
(2) H.PINTER, Proust. Una sceneggiatura cit. , p. 3.
(3) H.PINTER, Proust. Una sceneggiatura cit. , p. 5.
(4) M. PROUST, Il Tempo ritrovato, trad. it. e cura di G. Raboni, Milano, Mondadori, 19952, pp. 218-219.
(5) H.PINTER, Proust. Una sceneggiatura cit. , pp. 181-182.
(6) Questo breve testo di Proust, pubblicato da Pierre Clarac e Yves Sandre nei Nouveaux Mélanges (che si possono ritrovare in M. PROUST, Scritti mondani e letterari, trad. it. di P. Serini e M. Bongiovanni Bertini, a cura di M. Bongiovanni Bertini, Torino, Einaudi, 1984) viene qui però citato direttamente dallo splendido libro di M. LAVAGETTO, Stanza 43. Un lapsus di Marcel Proust, Torino, Einaudi, 1991, p. 45.
(7) Questo scritto di Debenedetti si può ritrovare in G. DEBENEDETTI, Rileggere Proust, Milano, Mondadori, 1982.
(8) M. LAVAGETTO, Stanza 43. Un lapsus di Marcel Proust cit. , p. 51.
(9) G. DELEUZE, Proust e i segni, trad. it. di C. Lusignoli, Torino, Einaudi, 19672, pp. 54-55. Non va però dimenticato come la traduzione da me utilizzata comprenda solo la prima metà del più ampio testo del filosofo francese.
(10) G. DELEUZE, Proust e i segni cit. , pp. 20-21.
(11) M. BONGIOVANNI BERTINI, Redenzione e metafora. Una lettura di Proust, Milano, Feltrinelli, 1981, p. 60 : “La funzione anticipatrice che il Septuor di Vinteuil svolge, ne La Prisonnière, rispetto alla rivelazione estetica del Temps retrouvé non è quindi riducibile ad un mero accorgimento architettonico mirante a rafforzare e ad arricchire di segrete simmetrie la struttura del romanzo: è invece un elemento essenziale sul piano teorico, che contribuisce in maniera determinante ad inserire la problematica decifratoria nel cuore della poetica del Temps retrouvé, facendone l’insostituibile fondamento dell’estetica della metafora”.
(12) M. BONGIOVANNI BERTINI, Redenzione e metafora. Una lettura di Proust cit. , pp. 10-11.
(13) Cfr. C. GINZBURG, “Spie. Radici di un paradigma indiziario” in Miti emblemi spie. Morfologia e storia, Torino, Einaudi, 19922, pp. 158-209. Questo articolo di Ginzburg, che è stato al centro di un dibattito tanto intenso all’epoca quanto oggi almeno apparentemente dimenticato, era apparso precedentemente in un volume dal titolo Crisi della ragione. Nuovi modelli nel rapporto tra sapere e attività umane, a cura del compianto A. G. Gargani, Torino, Einaudi, 1979.
(14) G. DELEUZE, Proust e i segni cit., pp. 46-47: “[…] il soggetto artista ha la rivelazione di un tempo originale, avvolto, complicato nella stessa essenza, che stringe in un solo abbraccio tutte le sue serie e tutte le sue dimensioni. Questo appunto è il senso del termine “tempo ritrovato”. Il tempo ritrovato, allo stato puro, è compreso nei segni dell’arte. Non va confuso con un altro tempo ritrovato, quello dei segni sensibili. Quest’ultimo è soltanto un tempo che ritroviamo in seno allo stesso tempo perduto; esso mobilita ogni risorsa della memoria involontaria, e ci offre una semplice immagine dell’eternità. Ma, come il sonno, l’arte è al di là della memoria: fa appello al pensiero puro come facoltà delle essenze. Quello che, grazie all’arte, ritroviamo,, è il tempo quale è implicato nell’essenza, identico all’eternità. L’extra-temporale di Proust è questo tempo allo stato nascente, e il soggetto artista che lo ritrova. Possiamo quindi affermare, a stretto rigore, che solo l’opera d’arte ci fa ritrovare il tempo: l’opera d’arte, “il solo mezzo di ritrovare il tempo perduto”, portatrice dei segni più alti, il cui senso è situato in una complicazione primordiale, eternità vera, tempo originario assoluto”.
(15) G. DELEUZE, Proust et les signes, Paris, Presses Universitaires de France, 19764, pp. 186-187.
(16)M. PROUST, Il tempo ritrovato cit. , p. 264.
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