Agostino d’Ippona
Quello sul tempo è un dibattito senza fine. La storia del pensiero vi ha dedicato sforzi notevoli, restando perfino spiazzata quando la meraviglia agostiniana si trovò interdetta di fronte all’esigenza di indicarne una definizione. Il tempo è un tratto eterno della natura umana. La nostra intrinseca finitezza, quella che si dice storicità della vita, è un requisito antropologico fondamentale. La temporalità intesa, quindi, come condizione dell’esistenza, premessa non esperibile dell’esperienza di tutti i giorni. Il tempo, però, a un certo punto, ha fatto breccia dentro la storia. Ha penetrato il muro al di là del quale campeggiano massicci fenomeni mondani. Quello che è sempre stato un presupposto intoccabile, impalpabile, puro spirito, si materializza. Acquista volume, spessore, un odore, si concretizza. Il tempo diventa carne nell’ambito del sistema capitalistico di produzione. Lo diviene nella misura in cui il lavoro orario, dunque salariato, rappresenta il pilastro dell’organizzazione della società. Per vivere e mantenersi in vita occorre vendere del tempo in cambio di denaro: qualcun altro, cioè, compera un pezzo della tua biografia e la usa per i propri fini, per accumulare merci e soldi. Il tempo liberato è, quindi, l’ora emancipata dal lavoro. Questa è l’idea marxiana, il bersaglio grosso cui aspira il programma antropologico del filosofo tedesco. Tuttavia, finché la regola è il lavoro, l’obiettivo resta vergine. Ma non è questo il punto. Il dato decisivo è che mentre resta in vigore la norma, emergono oggi situazioni di lavoro atipico che liberano grosse quantità di tempo ma la vita del singolo è comunque imbrigliata, in catene, prigioniera di un modello che la tiene sotto scacco. Il tempo liberato di un lavoratore postmoderno del settore della comunicazione, impiegato part-time, con contratto a termine, si rivela, invece, con la maschera della temporalità coatta, ansiogena, nervosa, schizzata, scioccata, espunta dal ciclo stabile della produzione ma fortissimamente dentro la battaglia per la collocazione nel mondo. A fare i conti col riverbero economico del problema umano troppo umano della precarietà.