“La polizia ha sempre funzionato come termometro di una democrazia. Più è presente nella società, meno quella società è libera e democratica. Nessuno Stato può fare a meno della polizia, a essa è affidato l’ordine pubblico, la difesa della proprietà privata, l’incolumità delle persone. Il sacrificio di una piccola porzione di libertà individuale vale la pena se in cambio tutti si sentono più sicuri. A patto che, attraverso le istituzioni, la società sia in grado di controllare l’operato dei poliziotti e riesca a intervenire laddove emergano degli abusi.Sembra semplice, ma nell’Italia di questo inizio Duemila le responsabilità e i ruoli sono saltati e noi cittadini liberi ne abbiamo fatto le spese”.La parte che mi ha più colpito di questo libro, non ancora terminato, è dove si parla della tortura. Scrive Marco Preve che questa è stata praticata da alcune squadre dentro la Polizia, nei momenti in cui questa (avendo ricevuto carta bianca dai vertici politici) aveva bisogno di ricostruirsi una immagine, dopo fallimenti.
Si sono torturati presunti o veri brigatisti per estorcere loro informazioni utili per le indagini sul rapimento di Aldo Moro.
Si sono torturati, col tristemente famoso metodo del waterboarding, anche persone che si riteveva fossero fiancheggiatori delle Br che avevano rapito il generale Nato James Lee Dozier.
C'è stata una squadra di funzionari della polizia, il cui capo era chiamato “dottor De Tormentis”, specializzata in queste pratiche.
Contro terroristi, ma anche contro mafiosi o presunti tali. Come Riina, sottoposto anche lui al trattamento nei lontani anni '60.
E poi ci sono i vari casi di cui si è occupata la stampa: Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, le vittime di stato di cui è occupata una recente puntata di Presa diretta (“Morti di stato”)
“Segatto lo colpiva alle gambe con il manganello, Pontani e Forlani lo tenevano schiacciato a terra mentre Pollastri lo continuava a percuotere.”La Cassazione ricostruisce l’uccisione di Federico Aldrovandi a opera di quattro poliziotti nel 2005.Solo poche mele marce nel paniere? O forse c'è un male oscuro nella Polizia, che tende a coprire certi casi, per insabbiarli e premiare i colpevoli?
E allora cominciamo col dire che “Il partito della polizia” non è un libro contro la polizia, ma anzi un libro per una polizia più democratica, più libera dagli influssi negativi della politica, più trasparente nel suo operato e negli appalti che la riguardano e che solo la lettera del corvo ha portato alla luce.
Il saggio di Marco Preve affronterà questo discorso secondo tre filoni: il primo riguarda appunto l'uso della tortura.
Scrive l'autore:
“Esisteva in Italia una squadretta di torturatori il cui capo era Nicola Ciocia. Meglio sarebbe dire una squadraccia di agenti e funzionari che solo un ingenuo o un colluso potrebbe oggi sostenere che agisse come una scheggia impazzita e non fosse, invece, sapientemente dosata e deliberata quando ce n'era bisogno. E allora, non un'indagine servirebbe, ma una ricerca storico-politica per risalire le gerarchie istituzionali e capire, al di là delle dichiarazioni scontate di ex ministri dell'Interno come Virginio Rognoni – che nega di aver dato il via libera alle squadracce -, chi e quando ha autorizzato la tortura nel nostro paese. Ma sarebbe un'iniziativa troppo pericolosa per troppi soggetti. Perché potrebbe involontariamente portare alla scoperta che la tortura è ancora autorizzata, o quanto meno tollerata, anche oggi”Il secondo filone riguarda proprio il partito della polizia.
Perché partito della polizia? Perché, specie negli ultimi venti anni, i vertici che governano il dipartimento della Pubblica sicurezza ha appreso tutte le lezioni della politica per tramutarsi essa stessa in un altro potere dentro lo stato: permanenza nei centri di potere, privilegi (gli stipendi del capo della polizia, superiori ai suoi equivalenti nel mondo), la creazione del consenso attraverso meccanismi premianti per soldati e colonnelli fedeli, neutralizzazione dei contestatori, la trasversalità politica.
Nonostante le inchieste che li hanno coinvolti per il G8 a Genova (il blitz alla Diaz, la cattiva gestione della piazza), i “De Gennaro boys” come li chiama l'autore, hanno continuato la loro carriera, intoccabili da destra e da sinistra.
Infine, il terzo percorso che punta diritto ai soldi: appalti per miliardi di euro gestiti in assoluta assenza di trasparenza, con criteri di assoluta antieconomicità.
“La polizia che gestisce appalti milionari lo fa con deroghe selvagge alle procedure, produce anomalie che a loro volta generano ‘reiterate violazioni’ delle regole imposte dal Codice dei contratti pubblici.”Relazione della Commissione ministeriale a cura del prefetto Bruno Frattasi.L'inchiesta sugli appalti Finmeccanica della polizia a Napoli (nata con la lettera del corvo) è arrivata fino al vicecapo della polizia Izzo (posizione poi archiviata), una sorta di ritorno a quanto detto prima: Izzo era infatti questore a Napoli nei giorni delle violenze alla caserma Raniero, dopo la manifestazione del Global Forum il 17/3/2001 (dove i poliziotti furono sospesi e poi reintegrati).
Una sorta di anticipo di quanto sarebbe successo al G8 a Genova.
L'inchiesta della procura ha stabilito sia le violenze che le torture psicologiche delle persone prelevate dagli ospedali dopo gli scontri in piazza. Prima della condanna è scattata la prescrizione, ma nonostante questo, né Genova, né Napoli sono state considerate delle macchie nella carriera dei funzionari coinvolti.
E mentre i vertici gestiscono appalti milionari e si possono permettere stipendi a troppi zeri, gli agenti lamentano carenze di personale, di auto, di benzina. E soprattutto, scarsa meritocrazia.
Se non possiamo fidarci della polizia, se in essa vi sono zone grigie, possiamo ancora chiamarci democrazia?
La scheda del libro sul sito Chiarelettere.
L'intervista dell'autore alla trasmissione Pane Quotidiano, con Concita De Gregorio