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“Il terrazzino dei gerani timidi” di Anna Marchesini

Creato il 30 settembre 2011 da Sulromanzo

“Il terrazzino dei gerani timidi” di Anna MarchesiniLa signorina Carlo. La sessuologa. Lucia, Bella Figheria e la madre badessa. La cameriera secca. Solo a nominarli, i personaggi evocano immediatamente nella mente di molti di noi la grande Anna Marchesini, magistrale attrice di teatro e indimenticata componente del trio, che ha lasciato un segno profondo all'interno del linguaggio e delle modalità comiche degli anni '90, e non solo.

Chi, in libreria, ha visto sullo scaffale il primo romanzo della Marchesini, Il terrazzino dei gerani timidi (Rizzoli), non può non essere stato colpito da tali input di pensiero, e così di certo ha fatto il caro amico che me l'ha regalato conoscendo la mia passione per Anna; difficile pensare che l'editore non ne fosse consapevole anche se, per onestà, nulla nella copertina lascia intendere che si tratti di un romanzo comico. Ma il nome basta.

Ed in effetti, questo non è un romanzo comico, anzi. La Marchesini vorrebbe trasportarci in un viaggio autobiografico (così lascia intendere il nome della protagonista, Anna) di formazione, che culmina nell'ultimo capitolo (l'unico che valga la pena di leggere per i fan dell'attrice?), in cui si narra dell'incontro con la letteratura e, marginalmente, con il teatro. Il vero momento centrale, però, è costituito dalla prima comunione, dalla sua preparazione e dai pensieri e timori che ruotano attorno a tale evento. Il capitolo 16 è il solo titolo, La festa, e da una pagina bianca, che lascia libero il lettore di tirare le conclusioni che preferisce o forse di arrivare a quelle predestinate dall'autrice.

Il romanzo non m'è piaciuto. L'ho letto, perché lo dovevo ad Anna Marchesini, ma non mi è piaciuto. Lo stile può essere definito barocco: ampolloso, con una ricerca maniacale della precisione e della rarità lessicale, ricco di metafore e similitudini anche complesse talvolta per situazioni estremamente semplici. Della stazione, dice: " Mi affascinava quella sorta di schiaffo sonoro che faceva girare la faccia e inseguire il treno in corsa, quando sfilava davanti agli occhi, compartimenti di vite estranee l'una all'altra eppure insieme e accanto; lunghi condomini orizzontali disordinati o amorfi, vivaci, con le luci accese, o del tutto segreti, dove l'esistenza si era organizzata per qualche ora intorno ad una stessa casualità". Un po' troppo, ma non ho scelto uno dei passi più impegnativi. Certo, l'autrice ha scelto di raccontare il suo grande amore per le parole, così come appare anche nel suo lavoro teatrale e forse non ha pensato al lettore, voleva solo parlare di sé: ma allora ci si chiede, era un libro necessario? Così lei lo ritiene: "Da grande - mi dissi - scriverò un libro [...]. Avrei scritto un libro dove mettere al sicuro il silenzio." Se il Silenzio, parola che chiude il testo, è così importante, se ne deduce che l'intero corpo del romanzo sia quanto di più essenziale si possa trovare; a mio parere l'operazione non è purtroppo riuscita, anche per quelle aspettative di cui si diceva sopra, di cui però, mi rendo conto, l'autrice non era tenuta a rendere conto; se è così, forse pubblicare con uno pseudonimo sarebbe stato più onesto. È pur vero che l'intelligenza verbale comica talvolta traluce, come (inevitabilmente) nella descrizione delle suore, o in quella delle vecchiette a cui la piccola Anna è costretta a fare visita dopo la comunione: " alla lingua parlata cittadina apparteneva una curiosa forma dialettale, per cui le parole che terminavano con la lettera i, venivano pronunciate come se terminassero con la e, così in pratica non esisteva il maschile plurale e, cosa che mi divertiva immensamente, veniva tutto coniugato indifferentemente al femminile. Di conseguenza, i fratelli, i soldati, i vicoli, i figli, i maschi, erano le fratelle le soldate le vicole le figlie le maschie [...]. "So' cattive 'ste biscotte, portame quelle dolce, lunghe, che compre per me, le wafere! ". Ma non basta, lo capisco, per salvare il libro.

Una domanda, infine: l'ossessivo ripetersi dell'aggettivo "timido", affibbiato sin dal titolo a ogni forma vivente e non, è forse un rispettoso omaggio all'ossessionante ripetersi del termine "indifferenza" nel più celebre dei romanzi di Alberto Moravia?


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