Addirittura più nefasto del terremoto, c’è un rischio molto presente nel nostro povero paese. La specie dei cretini, già molto descritta ma poco contrastata, si nutre di stereotipi, anche quando è istituzionale e tecnocratica: italiani pigri se gli dai sicurezze, si adagiano mangiando spaghetti e suonando la chitarra, le garanzie li rendono indolenti e monotoni, i giovani sono mammoni. Si affidano alla liturgia e alle sue omelie: faremo chiarezza, gli investigatori sono al lavoro, scopriremo i mandanti. Prediligono la retorica dei pregiudizi: i giapponesi sì che hanno saputo far fronte alla catastrofe, la mafia ha un codice d’onore e quel bambino nell’acido si è tuffato da solo, alla geometrica potenza delle Br si addice la prosa immaginifica dei decadenti, ha nuociuto più al “sistema paese” uno sceneggiato che la piovra vera. E perché no? non ci sono più le mezze stagioni, tutti rubano.
In questa nostra tetra contemporaneità sono particolarmente sgargianti: è che un tempo, prima della esibizionistica ostensione dei difetti privati come fossero virtù pubbliche e condivise, prima della sgangherata condanna della morale bollata di moralismo perbenista e bacchettone, prima che la visibilità comunque prevalesse sulla reputazione, il cretino provava un certo pudore nel manifestare la sua perentoria stronzaggine, almeno fino a quando veniva riconosciuto come venerato maestro.
Adesso no, grazie anche ad alcuni patroni dell’entusiastico affrancamento dell’imbecille, a condizione che sia provocatorio, esibito, prevaricatore e quindi potenzialmente convincente. Purché il qualunquismo sia violento e gridato, perciò persuasivo e in tanti ci si riconoscano in libertà e infamia.
Così non si è fatta attendere l’esternazione dell’ineffabile Sgarbi, idealtipo della sfacciata sicumera dell’arrivismo per adesione e fidelizzazione, dell’ambizione premiata per affiliazione, talmente”power victim” da volersi annettere al suo cono di luce anche mediante padrini variamenti criminali. E che ha stilato una top ten della dignità e intraprendenza in caso di terremoto: “L’Emilia saprà reagire, non come l’Abruzzo che si piange addosso. Se il terremoto avesse colpito nel meridione la tragedia sarebbe stata doppia. In Friuli mica sono stati ad aspettare passivamente, si sono rimboccati le maniche loro, e sarà così anche in Emilia”.
Bastasse rimboccarsi le maniche Bersani avrebbe costruito un partito e non una gelatina, si sa. Ma la vera vergognosa infamia delle graduatorie è che alimentano la menzogna, manomettono la storia e manipolano le percezioni, coltivando amorevolmente i preconcetti in modo da dare liceità al peggio che giace dentro a cittadini infedeli, evasori seriali, xenofobi al loro insaputa secondo l’ideologia del ticket Pdl-Lega, ora modernizzata dai contenuti spregiudicati e iniquamente innovativi della svolta tecnocratica. Si, appartiene proprio a quella “tradizione” scatenare la competizione e la concorrenza, che si sa è l’anima del commercio e del mercato, perfino nelle catastrofi, così da premiare i più meritevoli di qualche briciola di risarcimento, un pizzico di assistenzialismo, due grani di lottizzazione in cambio di fedeltà e di voti. E tacendo che in Friuli arrivarono aiuti formidabili a differenza che all’Aquila, che perfino Zamberletti era meglio del faccendiere Bertolaso, che allora la cerchia degli imprenditori era meno collusa, corrotta e corruttrice, meno integrata insomma in quell’intreccio di malaffare che ormai è il connotato della nostra identità nazionale. E che le emergenze marcivano allora come oggi ma non venivano provocate ad arte per assicurare svolte autoritarie, accentratrici e “straordinarie” in modo da favorire un affarismo opaco, insieme all‘espropriazione della capacità e volontà decisionale dei cittadini. Che ho visto all’Aquila, oggetti di un processo di istituzionalizzazione totale, ridotti a malati di paura dentro alle tende con l’acqua fino alle ginocchia, derubati del diritto di parola, quando venivano appesi ordini del giorno sull’abbigliamento acconcio alla condizione di sfollati, quando la loro città fantasma si sgretolava, e in nome di implacabili comma 22 era proibito loro l’ingresso se non accompagnati, ma ai volontari era impedito di accompagnarli, se alla volontà di ricostruire con le case, le memorie, le tradizioni, la vita insieme, si opponeva il business crudele e inesorabile delle new towns, di Aquila 2, 3, 4, 5, ripetizione seriale del modello Mediaset e dell’urbanizzazione incivile e irrispettosa della cultura e dell’umanità.
La vera differenza tra paesi e civiltà arcaiche e paesi e civiltà che sanno fronteggiare e governare la complessità moderna sta proprio nel modo di affrontare le crisi. Poco più di un anno fa il mondo guardò ammirato al comportamento dei giapponesi che chiamano chokkagata l’evento estremo, la catastrofe, una parola che contiene il significato di annuncio, di previsione, insieme a quello di inevitabilità. Allora pensammo che culture più mature avessero introiettato il senso e il criterio che nulla è imprevedibile, nulla è inevitabile nulla è tanto “naturale” da non poter essere integrato nella programmazioni del futuro e nel governo di un’esistenza, quella personale e quella di un paese.
Non era così, avevamo confuso la compostezza con la saggezza, la sobrietà con la capacità di governo, l’ordine con la previsione e Fukushima ci ha dimostrato che le case erano state costruite con criteri antisismici magari, ma che l’avidità aveva offuscato la lungimiranza della classe dirigente per quanto riguardava la più rischiosa delle attività produttive.
È un errore che evidentemente ci accade di ripetere, ritenere meno dannosi i cretini austeri di quelli esuberanti, preferire i killer ai pagliacci, che per carità si sono rivelati quasi altrettanto mortali. Ed è comprensibile, è colpa degli urli scomposti di Sgarbi, della sembianze lombrosiane della Santanchè, delle ministre scosciate e delle acrobazie di Scilipoti. Ma è colpa nostra se legittimando i pregiudizi un po’ sfasciati che accompagnano perfino i nostri lutti, concediamo che ci vengano sottratti diritti, dignità e responsabilità.