foto:flickr
Dopo un primo romanzo tutto incentrato su un uomo solo in mezzo a uomini (“Il cosmo secondo Agnetha”), un secondo libro costruito sulla figura di una donna sola in mezzo a donne (“La sofferenza è gratis”), sto ora tentando di scrivere una storia che abbia come protagonista un’intera famiglia piuttosto numerosa.
La letteratura abbonda di grandi saghe che, seguendo splendori e miserie di più generazioni, colgono l’occasione per ampliare lo sguardo e raccontare una fetta di Storia e di mondo che cambia.
Non so ancora come si svilupperà il mio progetto, quale struttura e quali ambizioni avrà, ma già dalle primissime pagine della stesura mi rendo conto che gli ostacoli da superare non sono pochi.
Quello della banalità prima di tutto.
Il nostro immaginario da fruitori di trame contemporanei è sovraffollato di famiglie alle prese con le intricate complicazioni della vita, e quasi sempre si tratta di riferimenti televisivi. Le casalinghe di Wisteria Lane, i Fisher, becchini di “Six Fit Under” e, più recentemente i Walker di “Brothers and sisters”. Per non parlare dei grandi classici del lessico famigliare, come gli Ewing di Dallas, i Carrington di Dynasty, i Cunningham di Happy Days e chissà quante altre potrebbero venirmene in mente.
Con buona pace di Papa Genoveffo XVI, infatti, la vera famiglia tradizionale del terzo millennio è quella che esce dallo schermo tivù e che miliardi di telespettatori di tutto il mondo hanno eretto a loro modello di riferimento esistenziale. Perché, essendo spesso scritti benissimo (soprattutto quelli di più recente produzione), i serial-tv si dimostrano una perfetta rappresentazione della realtà romanzata, e hanno definitivamente sostituito il feuilletton popolare nel suo intento otto-novecentesco di intrattenere le masse dando loro qualcosa in qui riconoscersi e, allo stesso tempo, su cui sognare.
Proprio per questo motivo, oggi, scrivere un romanzo famigliare è particolarmente complesso. Perché, se è vero che la narrativa dovrebbe avere sempre un linguaggio tutto suo, diverso da quello di altre forme di racconto come ad esempio quella televisiva, è altissimo il rischio di finire invece a mettere insieme nient’altro che un’ennesima serie-tv in parole scritte nero su bianco anziché recitate. E’ il temibile effetto-Walker, quello che porta tanti romanzieri a pensare ai loro personaggi come se fossero protagonisti di una fiction-tv, e come tali a farli parlare, imbastendo i capitoli del libro sulla falsa riga degli storyboard delle puntate, quasi lasciando degli spazi nei momenti di maggiore suspance quasi ci si dovessero inserire gli spot pubblicitari.
Come tutti gli intellettuali della mia generazione, sono ovviamente anch’io un divoratore di sceneggiati americani, ma nonostante ciò - anzi, proprio per questo - credo che, nel concepire una trama da buttare in un libro, ogni autore debba staccarsi il più possibile dai format buoni per il piccolo schermo, e raccontare sì la stessa cosa, ma in tutt’altro modo, con un ritmo più congeniale alla lettura che allo zapping. Altrimenti la narrativa rischia davvero di scomparire per sempre, annientata da tutte le altre forme di intrattenimento che dovrebbero imitarla e che, invece, sempre di più è lei ad inseguire.
Per questo ve lo giuro che, dovesse mai un giorno arrivare a un albero genealogico completo e magari edito, la mia famiglia immaginaria assomiglierà il meno possibile a tutte quelle che, uscendo dagli schermi al plasma in salotto, sono già diventate le vostre decine di famiglie adottive.