Il secolo degli impostori e dei demiurghi. Beatrice Craveri, Maria Antonietta e lo scandalo della collana, Milano, Adelphi, 2006
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di Giuseppe Panella*
«La più buffa delle commedie che abbia mai colpito il mondo» – così Stefan Zweig ha definito il cosiddetto “affare della regina”. Ricapitoliamo quella storia un tempo tanto famosa che Wolfgang Goethe, dopo un viaggio in Sicilia e un colloquio accorato dolente e parodistico con la madre di Giuseppe Balsamo, il famigerato Alessandro conte di Cagliostro, si sentì in dovere di scriverci su un libretto d’opera (Die Mystificierte) che non andò in porto per deficienze dovute alla parte musicale (i due compositori cui l’opera era stata affidata, l’amico zurighese Philipp Kaiser e il Kapellmeister Reichardt non portarono a termine le parti necessarie alla sua realizzazione) e poi un testo teatrale “buffo” messo in scena nel 1791 dal titolo Der Gross-Kofta, Il Gran Cofto, nome assunto da Cagliostro nell’ambito della loggia massonica da lui fondata e intitolata al “rito egiziano”. La pièce ebbe scarsissimo successo (come molti dei testi teatrali di Goethe, peraltro).
Per un testimone d’eccezione che lo conobbe da giovane e che non lo considerava un granduomo, Giacomo Casanova, cavaliere di Seingalt, Cagliosto-Balsamo era “un genio fannullone che preferisce una vita di vagabondo a un’esistenza laboriosa” (questo non gli impedì di dargli del denaro in cambio – pare – dei favori di Lorenza Feliciani, la moglie giovanissima del Gran Cofto che si prostituiva occasionalmente e che aveva dalla sua parte il fascino di essere una donna boiteuse, zoppicante, al cui richiamo sessuale nessun uomo sa resistere (lo ammette con franchezza anche Michel de Montaigne in un suo celebre essai, molto caro anche a Leonardo Sciascia).
Per Goethe, l’”affare della collana” era stato il Fundament della Rivoluzione Francese.
Charles-Auguste Boehmer e Paul Bassenge, gioiellieri assai famosi in Parigi per le loro creazioni alla moda, avevano realizzato per Luigi XV, follemente infatuato della sua “favorita” Madame Du Barry, un collier di grande bellezza, tutto composto di diamanti di grande spessore e taratura. Luigi XV, però, era morto prima di poter consegnare la collana alla sua donna prediletta e il suo successore diretto, Luigi XVI, aveva scacciato dalla corte la Du Barry, rifiutandosi di pagare ai due gioiellieri la somma di 1. 600. 000 livres, circa 50 chili d’oro, per il suo valore reale (una somma enorme anche oggi – un centinaio di milioni di euro circa !). Aveva però avuto animo di offrirla alla sua regina, Marie-Antoinette, ma questa aveva rifiutato. Gliel’aveva riproposta in occasione della nascita del Delfino, Louis-Joseph, ma anche questa volta la regina aveva rifiutato. La collana era, dunque, rimasta invenduta e i due gioiellieri si trovavano sull’orlo del lastrico finanziario.
Una giovane avventuriera, Jeanne de Saint-Rémy de Valois (maritata poi con un ufficiale, Antoine-Nicolas de La Motte anch’egli di dubbie origini nobiliari), che vantava un legame di discendenza con i Valois tramite un loro progenitore che era stato uno dei figli illegittimi di Henri II di Valois, era riuscita a convincere il cardinale Louis-René de Rohan di avere buone entrature presso la regina di Francia. Per una bella ragazza era facile dirsi amica di Marie-Antoinette – basta entrare in contatto con l’ambiente della signora di Polignac che era nota fornire giovani donne alla regina i cui gusti bisessuali erano ben noti nell’ambiente di corte (come pure la flagrante impotentia coeundi del re Luigi, testimoniata a livello popolare da pamphlet, stampe e gravures di diffusione molto larga).
Su questa base, Jeanne de La Motte lo convinse di poter essere un buon tramite per riconciliarsi con la regina che lo aveva in odio da quando aveva potuto leggere una sua lettera al conte d’Angoulême in cui manifestava tutto il proprio disprezzo per l’ipocrisia della madre di lei, l’augusta e terribile Maria-Theresia d’Austria, madre di ben due imperatori d’Austria e di due regine (Maria Antonietta appunto e Maria Carolina di Borbone, moglie di Ferdinando I, re delle Due Sicilie). L’ambizione, infatti, di Rohan era di diventare l’ennesimo Cardinale primo ministro del Regno di Francia (probabilmente egli aveva anche delle mire sessuali sulla Regina di cui apprezzava molto la bellezza fisica). Jeanne de La Motte gli fece credere che i suoi lauti esborsi per le opere di carità della donna erano stati tanto apprezzati da essa da indurla a chiedergli di farsi tramite (e garante) dell’acquisto della famosa collana. Per convincerlo ad anticipare una parte della somma necessaria all’acquisto del collier, Jeanne de La Motte organizzò un incontro clandestino al boschetto di Venere del Trianon di Versailles in cui una donna, incappucciata e interamente ricoperta da un mantello, lo ringraziava per la sua opera di intermediazione e di pagamento della prima rata della collana. Si trattava di una prostituta, Nicole Leguay d’Oliva, che doveva la sua fortuna presso i suoi clienti proprio alla sua forte somiglianza con la Regina di Francia. Sulla base di una lettera firmata “Maria Antonietta di Francia” che lo autorizzava a farlo, Rohan acconsentì a essere il tramite per l’acquisto della collana sulla base di rate mensili di 400.000 livres ogni semestre. Ma i pagamenti non furono fatti come da accordo e solo 100.000 livres furono versati dal cardinale. La collana fu consegnata a Jeanne de La Motte perché fosse portata a Maria Antonietta ma questo, ovviamente, non avvenne. Distrutta nella sua struttura portante, i diamanti singoli furono portati a Londra per essere venduti dall’amante di Jeanne, Rétaux de Villette, lo stesso uomo che aveva portato via dalla casa del Cardinale di Rohan la collana una volta che questi l’aveva ricevuta dalle mani dei gioiellieri dopo aver versato l’acconto dovuto. Il fatto è che Rohan non aveva la somma necessaria a pagare la collana e aveva intenzione di chiederli in prestito dal barone Baudart de Saint-James, uno dei banchieri più ricchi di Parigi che ne informò subito l’abate Vermond, consigliere spirituale della regina. Le prime avvisaglie dello scandalo cominciavano a palesarsi e Maria Antonietta temeva fortemente per la sua reputazione. Il 15 agosto 1785, Rohan fu condotto alla presenza del re e della regina e, arrestato, fu poi condotto alla Bastille. Nel corso del lungo processo che fu tenuto presso il Parlamento di Parigi, organo notoriamente avverso di solito al potere reale. Rohan, Cagliostro (arrestato anch’esso con la moglie), la Leguay d’Oliva (che si presentò al processo mentre allattava un suo figlio appena nato) furono assolti; il marito di Jeanne de La Motte fu condannato alle galere (ma era già fuggito a Londra), Rétaux de Villette fu bandito e gli furono confiscati i beni, Jeanne de La Motte fu condannata alla fustigazione pubblica e al marchio d’infamia della V (Voleuse) con la conseguente carcerazione a vita nella Sâlpetrière, la prigione classica delle prostitute. Tutto ciò sarebbe avvenuto se la de La Motte non fosse scappata a Londra dove scrisse le sue Mémoires in cui accusava platealmente la Regina.
«La regina era innocente e per rendere nota in pubblico la propria innocenza volle che il Parlamento fosse il giudice. Il risultato fu che si ritenne la regina colpevole» dirà Napoleone più tardi.
L’opinione pubblica francese ritenne Maria Antonietta colpevole e partecipe dell’ affaire; il trono cominciò a vacillare proprio per colpa (o per merito?) degli intrighi di Jeanne de La Motte e del Cardinale di Rohan. Il prelato sarà poi esiliato nell’Abbazia di Chaise-Dieu dove rimase fino alla morte. Cagliostro fu bandito dalla Francia, si recò a Londra per un anno circa e poi venne in Italia. Prese casa a Roma dove fu arrestato, detenuto a Castel Sant’Angelo, condannato all’ergastolo e rinchiuso fino alla morte nel Castello di San Leo (attualmente in provincia di Rimini ma un tempo collocato nel territorio delle Marche). Murato vivo in quel carcere duro, in una cella cui si accedeva solo dall’alto, il cosiddetto Pozzetto, morirà cinque anni dopo, il 23 agosto 1796. La sua tomba non sarà mai ritrovata perché non era stata contrassegnata in modo adeguato, senza nome, senza croce.
L’”affare della collana della regina” fu il colpo di grazia alla credibilità (già molto insidiata dalla letteratura pornografica e dai pamphlet dell’epoca) di Maria Antonietta e della dinastia reale:
«Già nell’anno 1785 la storia della collana mi aveva atterrito come la testa della Gorgona. Attraverso quest’inizio inaudito e scellerato, io vedevo minato e già annientato in anticipo il decoro della regalità, e purtroppo tutti gli avvenimenti di quest’epoca hanno confermato a sufficienza quei terribili presagi… Per fortuna il mio Tasso era già terminato, ma poi gli eventi storici contemporanei invasero completamente il mio spirito» scriverà Goethe nel suo resoconto della guerra contro la Repubblica francese culminata nella vittoria francese a Valmy del 20 settembre 1792 (il volume dedicato alla Kampagne im Frankreich).
Il libro di Beatrice Craveri ricostruisce in maniera affascinata e severa questa vicenda così apparentemente poco importante per la storia universale e così foriera di contrasti e catastrofi a venire. Un cenno ad una figura fondamentale per la comprensione di quel periodo poteva però essere fatto e avrebbe illuminato di luce radente quanto avveniva nel contesto culturale dell’epoca. Alexandre Dumas ha dedicato alla Collana della regina il secondo dei cinque volumi del suo Ciclo della Rivoluzione Francese (1. Joseph Balsamo; 2. La collana della regina; 3. Ange Pitou ; 4. La contessa di Charny ; 5. Il cavaliere di Maison-Rouge). In esso vicende pubbliche (che Dumas ricavava dalla sua ottima lettura della Storia della Rivoluzione francese di Jules Michelet e di quella di François-Auguste Mignet che preferiva alla ricostruzione micheletiana) e private si intrecciano in un groviglio che si scioglierà solo con la morte per ghigliottina della sfortunata regina francese.
Nel romanzo sullo scandalo della collana gran parte hanno i luoghi della “rivoluzione terapeutica” ad opera di Franz Anton Mesmer, l’austriaco padre della teoria del “magnetismo animale” e del fluido capace di guarire le malattie nervose e invalidanti più ostinate e difficili. Negli anni in cui Cagliostro era a Parigi al soldo del Cardinale di Rohan ed era protagonista di guarigioni e manifestazioni miracolosi e plateali, ricchi e poveri, signore della nobiltà e popolane, persone colte e semplici ammalati (il cosiddetto “proletariato terapeutico”) popolava la stanza del baquet di Mesmer e si aggrappava alle maniglie di rame che attingevano alle limatura di ferro sul fondo della tinozza la forza fluidica capace di curarli. La frequentazione di questi ambienti che furono al centro di una vera e propria “rivoluzione terapeutica” assai simile nelle prospettive se non nel successo a quella freudiana di un secolo più tardi facilitò l’opera di seduzione e di infiltrazione di Jeanne de La Motte che trovava nella casa di cura di Mesmer soggetti disponibili alle sue attività truffaldine (ad esempio, Madame Maria Teresa Luisa di Savoia-Carignano, principessa di Lamballe, amica intima di Maria Antonietta, era ammalata di quelli che allora si chiamavano vapeurs, vapori, ed era in cura da Mesmer). La figura del medico austriaco, ben illustrata in un saggio storico di Franklin Rausky (Mesmer o la rivoluzione terapeutica, trad. it. di L. Sosio, Milano, Feltrinelli, 1980), può figurare a ragione in quel crogiuolo di progresso scientifico e di ciarlataneria esoterico-ermetico-rosacruciana da cui emergerà con forza e vigore il nuovo modello della scienza moderna e delle sue scoperte fondamentali. Mesmer e Cagliostro sono, di conseguenza, molto probabilmente due facce della stessa medaglia.
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*Il primo sguardo da gettare sul mondo è quello della poesia che coglie i particolari per definire il tutto o individua il tutto per comprenderne i particolari; il secondo sguardo è quello della scrittura in prosa (romanzi, saggi, racconti o diari non importa poi troppo purché avvolgano di parole la vita e la spieghino con dolcezza e dolore); il terzo sguardo, allora, sarà quello delle arti – la pittura e la scultura nella loro accezione tradizionale (ma non solo) così come (e soprattutto) il teatro e il cinema come forme espressive di una rappresentazione della realtà che conceda spazio alle sensazioni oltre che alle emozioni. Quindi: libri sull’arte e sulle arti in relazione alla tradizione critica e all’apprendistato che comportano, esperienze e analisi di oggetti artistici che comportano un modo “terzo” di vedere il mondo … (G.P.)