Lo specchio del mondo e il sogno della visibilità assoluta. Idee di cinema, a cura di Giovanni Maria Rossi e Chiara Tognolotti, Milano, Il Principe Costante Edizioni, 2010
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di Giuseppe Panella*
«Ho sempre creduto che il cinema, con il suo tremendo potere visuale, fosse il mezzo di espressione perfetto. Tutti i miei libri precedenti a Cent’anni di solitudine sono come intorpiditi da quella certezza. C’è uno smodato desiderio di visualizzazione dei personaggi e delle scene, un calcolo millimetrico dei tempi… e perfino l’ossessione di indicare i punti di vista e l’inquadratura» – ha dichiarato Gabriel García Márquez in un’intervista rilasciata poco dopo la pubblicazione di Cent’anni di solitudine (in A. Durán, Conversaciones con Gabriel García Márquez in “Revista Nacional de Cultura” (XXIX), luglio-settembre 1968).
Se il cinema ha costituito nel tempo il punto di riferimento costante per uno scrittore “laureato” come Gabriel García Márquez, la sua presa di posizione non è stata certamente condivisa in maniera generalizzata, soprattutto nel periodo pionieristico della sua nascita, né il principio della potenza visuale della macchina da presa come presa di possesso sul mondo è sempre valso per tutti.
La storia del cinema come insieme di eventi produttivi coincide con il susseguirsi dei giudizi espressi su di esso e sulla sua validità come arte autonoma.
Scrive Giovanni Maria Rossi nella sua Premessa al volume:
«Partendo dal 1895, anno in cui si colloca convenzionalmente la nascita del cinematografo, questa antologia intende allora ripercorrere, in compagnia dei testi più illuminanti di teorici, scrittori e cineasti – preceduti da introduzioni esplicative –, quell’arco secolare di pensiero che va dalle prime prove fondanti degli “inventori” Lumière e Méliès alle speculazioni estetiche di Ricciotto Canuto e Jean Epstein che tra i primi rivendicarono e dimostrarono l’incomparabile essenza di un’arte nuova; dagli slanci sperimentali delle avanguardie degli anni Venti e Trenta alle vertigini formali della scuola sovietica; dalla rivoluzione del sonoro al consolidarsi dei codici narrativi; dalla rifondazione dello sguardo dei “realismi” del secondo dopoguerra al rilancio delle libertà autoriali promosso da André Bazin e dalle nouvelles vagues che hanno spazzato gli schermi degli anni Sessanta; dalle sofisticate teorie del linguaggio degli anni Settanta alle voci forti e isolate dei grandi cineasti – Bresson, Bergman, Antonioni, Tarkovskij, Wenders – che hanno solcato il mare incerto della contemporaneità. Idee ma anche pratica di cinema: abbiamo infatti privilegiato quegli autori, quegli scritti che non scaturivano soltanto dalla riflessione teorica a tavolino, peraltro necessaria in ogni disciplina, ma soprattutto dal contatto fisico, appassionato, insano probabilmente, con il corpo-macchina del cinema e i suoi inesauribili prodotti, i film» (pp. 8-9).
La domanda fondamentale che mi sembra preliminare di fronte a libri come questa antologia di Rossi e Tognolotti è appunto questa: esiste un’arte chiamata cinema o esistono soltanto i film che la costituiscono e sui quali soltanto va dato un giudizio estetico di valore?
La risposta è, ovviamente, delegata alle diverse elaborazioni del concetto di cinema come progetto artistico, da un lato, e alla loro trasformazione in evento produttivo dall’altro. Il cinema, quindi, non vale come tale, come forma espressiva in sé, ma vale soltanto come insieme risolutivo delle sue realizzazioni concrete. Si tratta, quindi, di una possibilità legata all’idea di cinema e non a un suo statuto ontologico (come pure autorevoli studiosi dell’argomento quali Jean Mitry avevano provato a configurare in atto). Il cinema, dunque, esiste come possibilità reale di oggetti artistici che vanno però messi in atto, trasformati in qualcosa che funziona a livello non solo oggettivo ma anche di fruizione da parte degli spettatori.
“Questa invenzione non è in vendita. Per voi sarebbe la rovina. Potrà essere sfruttata per un po’ di tempo come curiosità scientifica, ma a parte questo non ha futuro” – dirà Antoine Lumière a Georges Méliès che voleva comprare il suo apparecchio e gliene aveva chiesto il prezzo (1).
Il cinema non ha mai avuto futuro probabilmente in quanto tale e il fatto che di solito abbia sempre dovuto attingere alle altre sei arti (ma la numerazione è solo indicativa!) è significativo. Ma è altrettanto significativo il fatto che, nonostante si sia sempre appoggiata a determinati aspetti delle espressioni artistiche ad essa collegabile (pittura, teatro, musica, letteratura), la sua singolarità finale sia comunque rimasta invariata. Il cinema è cinema – sempre per citare Godard e una sua (una volta) celebre raccolta di testi critici. Questa raccolta di giudizi e di analisi testuali cerca di rispondere alla domanda che sorge spontanea dopo questa dichiarazione, che cosa il cinema sia nella sua assolutezza. Potrà essere l’”arte del montaggio” come per Ejzenštein o per Dziga Vertov descritti in una sezione del libro alle pp. 109-134; potrà essere considerato la possibilità visiva della trasposizione dei sogni degli uomini come per Desnos o Breton o Antonin Artaud (pp. 135-155); potrà essere considerato come lo strumento più efficace da utilizzare in base alla necessità di capovolgere il sistema sociale di cui si trova ad essere un prodotto per esprimere e mostrare le contraddizioni vigenti in quella stessa società (come accade per alcuni esponenti della Nouvelle Vague francese soprattutto dopo il moto rivoluzione del maggio del Sessantotto – pp. 231-240); potrà essere il nuovo progetto estetico di catalizzazione della poesia (come accade di pensare a Pier Paolo Pasolini nel teorizzare e realizzare i suoi prodotti cinematografici – pp. 256-259). Può essere, infine ma non alla fine, il modo di teorizzare e di descrivere la natura del reale a partire dal suo statuto di immagine (come farà Gilles Deleuze nel suo doppio trattato sulla realtà del cinema – pp. 274-280). Ma, a differenza di chi lo classifica come una produzione di sogni a mezzo di sogni, il cinema può essere benissimo il “ritorno alla realtà fisica” come voleva Siegfried Kracauer in un suo testo divenuto ormai un classico dell’estetica (pp. 202-210). Non è naturalmente possibile distribuire il torto e la ragione pesandolo sulla bilancia di un’(impossibile) Verità.
Scrive ad esempio Kracauer nel tentativo di dimostrare come il cinema possa permetterci di vedere con maggiore autorevolezza ciò che intravediamo o vediamo con deboli occhi di uomini:
«Il cinema ci permette di vedere quello che non vedevamo, o forse addirittura non potevamo vedere, prima del suo avvento. Validamente ci aiuta a scoprire il mondo materiale con le sue corrispondenze psicofisiche. Riscattiamo letteralmente questo mondo dal suo stato di sonno, di virtuale non-esistenza, sforzandoci di farne l’esperienza attraverso la macchina da presa. E siamo liberi di esperimentarlo prima d’essere ridotti in frammenti. Il cinema può essere definito un mezzo particolarmente attrezzato per promuovere il riscatto della realtà fisica. Per la prima volta le sue immagini ci permettono di portar via con noi gli oggetti e le circostanze che comprendono il fluire della vita materiale» (p. 205).
Pur partendo dallo stesso supporto analitico e dalla stessa materialità dimostrativa, Boris M. Ejchenbaum aveva dato del cinema una visione assai diversa, se non diametralmente opposta:
«Come qualsiasi arte, il cinema esiste e si sviluppa in base a questa sua natura peculiare, creata artificialmente, convenzionale, e in un certo senso “secondaria”, risultante dalla trasformazione della natura in materiale. Il movimento, artificialmente smembrato in particelle astratte (fotogrammi), si ricompone sullo schermo davanti agli occhi dello spettatore, e già in maniera diversa e conforme alle leggi del cinema. […] In tal modo, i fotogrammi esistono sulla pellicola separatamente l’uno dall’altro, proprio per distruggersi sullo schermo, per fondersi in un movimento unico» (p. 131).
E Gilles Deleuze nel rimandare alla nozione di enunciabile la sua teoria semiologica che si contrappone ad ogni riduzione dell’immagine cinematografica alla sua dimensione linguistica, annette alla teoria della visione il compito di potenziare la soggettività dello spettatore e di rendere il cinema il grande serbatoio della possibilità del reale:
«La nuova immagine è costituita dalla situazione puramente ottica e sonora, che si sostituisce al venir meno di situazioni senso-motorie. […] Analogamente, la banalità quotidiana è così importante in quanto, sottomessa a schemi senso-motori automatici e già montati, è ancor più suscettibile, alla minima occasione di disturbo dell’equilibrio tra eccitazione e risposta (vedi la scena della servetta in Umberto D.), di sfuggire di colpo alle leggi di questo schematismo e di rivelarsi in una nudità, una crudezza, una brutalità visive e sonore che la rendono insopportabile, conferendole l’andamento di un sogno o di un incubo. Vi è dunque un passaggio necessario dalla crisi dell’immagine-azione all’immagine ottico-sonora pura. Talvolta è un’evoluzione che permette di passare da un aspetto all’altro: si comincia con dei film balade con legami senso-motori allentati e si raggiungono situazioni puramente ottiche e sonore. Talvolta i due aspetti coesistono nello stesso film, come due livelli di cui il primo serve esclusivamente da linea melodica all’altro» (pp. 278-279).
Risulta allora giustificata l’idea presente in un raro articolo giornalistico (uscito su “La Stampa” (XLI), 18 maggio 1907) di Giovanni Papini e intitolato quasi profeticamente La filosofia del cinematografo che il cinema allora ai primi passi è uno strumento di straordinaria utilità per la comprensione della natura del mondo nel momento in cui lo mostra ai suoi spettatori:
«Eppure anche i filosofi, anche i moralisti, anche i metafisici possono venire a ispirarsi in questi saloni oscuri invece di aggirarsi nei mercati e nelle piazze come Socrate, o fra i sepolcri, come Amleto, o sulle montagne, come Nietzsche. Il mondo quale ce lo presenta il cinematografo è pieno di un grande insegnamento di umiltà. Esso è fatto soltanto di piccole immagini di luce, di piccole immagini a due dimensioni, e danno, nonostante ciò, l’impressione del moto e della vita. Esso è il mondo spiritualizzato ridotto al minimo, fatto colla materia più eterea e angelica, senza profondità, senza solidità, simile al sogno, rapida, fantastica, ideale, reale. Ecco come può ridursi la vita degli uomini senza toglierle la verosimiglianza!» (p. 36).
All’entusiasmo di Papini, tuttavia, non si può che contrapporre il gelido distacco di Serafino Gubbio, operatore di Luigi Pirandello in quello che è forse il più bel romanzo sul mondo del cinema scritto in Italia. Se Papini mostra il lato positivo e il fascino delle immagini mostrate sullo schermo, lo scrittore siciliano ne dimostra il carattere di riproduzione meccanica e di forte alienazione umana. Il cinema, dunque, è come un Giano bifronte che si muove sempre su un crinale dialettico che lo porta ad essere arte e, nello stesso tempo, mercificazione di se stesso, ricco di un fascino ammaliatore che può diventare ipnotico e allucinatorio, rendendo “cattivo” (Adorno) il suo fruitore, luogo dove gli sguardi infiniti degli spettatori si fondono e si riuniscono per ritrovarsi e ricrearsi nell’occhio assoluto della macchina da presa.
NOTA
(1) In una scena del film Le Mépris (1963) di Jean-Luc Godard, ai piedi della pedana del locale d’avanspettacolo in cui il produttore Prokosch (Jack Palance) ha convocato il regista (Fritz Lang) e lo sceneggiatore (Michel Piccoli) della sua nuova mega-produzione dell’Odissea si può nitidamente leggere questa frase (e questa opinione era sicuramente condivisa dal regista franco-svizzero).
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*Il primo sguardo da gettare sul mondo è quello della poesia che coglie i particolari per definire il tutto o individua il tutto per comprenderne i particolari; il secondo sguardo è quello della scrittura in prosa (romanzi, saggi, racconti o diari non importa poi troppo purché avvolgano di parole la vita e la spieghino con dolcezza e dolore); il terzo sguardo, allora, sarà quello delle arti – la pittura e la scultura nella loro accezione tradizionale (ma non solo) così come (e soprattutto) il teatro e il cinema come forme espressive di una rappresentazione della realtà che conceda spazio alle sensazioni oltre che alle emozioni. Quindi: libri sull’arte e sulle arti in relazione alla tradizione critica e all’apprendistato che comportano, esperienze e analisi di oggetti artistici che comportano un modo “terzo” di vedere il mondo … (G.P.)
Le videorecensioni sono a cura di Giuseppe Panella
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