IL TRENO CHE UN GIORNO SI SCOPRì GAZZELLA

Da Ultimafila22

di Giacomo Pagone

Lorenzo sarebbe diventato un genio. Ne erano sicuri i genitori, i nonni e gli amici di famiglia. Ne erano certi anche il prete, i colleghi di lavoro di mamma e papà, e, soprattutto, lo confermava anche il Dna: con due genitori come quelli, Lorenzo, senza ombra di dubbio, sarebbe diventato un genio.

“Con dei genitori come voi” aveva detto il direttore del centro di ricerca presso cui lavoravano il padre e la madre di Lorenzo, “anche un mulo diventerebbe un genio!”

Era tutto deciso, dunque: Lorenzo, da grande, sarebbe stato un cervellone. Non uno di quei ricercatori curvati dalle delusioni professionali, ma un eccellente scienziato in grado di cambiare il corso della Storia con una sua mirabolante scoperta.

Del resto, il Signor Papà di Lorenzo e la Signora Mamma, erano da anni in odor di Nobel, e tutto lasciava supporre che, nel giro di qualche anno, avrebbero ottenuto il tanto ambito riconoscimento.

Per ora, tuttavia, Lorenzo preferiva non distinguersi dalla massa, motivo per cui piangeva notte e giorno nella sua culla adornata da un fiocco azzurro, nella stanza 22 C del reparto di neonatologia dell’ospedale della sua città.

La pressione sul piccolo era tale che sin dalla sua prima settimana di vita, a casa sua si susseguivano incredibili discussioni su quale fosse stata la prima parola dell’infante, salvo scoprire, poi, che non si trattava d’altro che di un banalissimo vagito.

Passarono i mesi, vennero spente le prime due candeline, ma Lorenzo, ancora, non mostrava segni di particolare precocità intellettiva.

Il Signor Papà e la Signora Mamma di Lorenzo si rodevano il fegato ascoltando i progressi del figlio di due loro amici scienziati svedesi, il quale, alla stessa età, iniziava già a parlare due lingue. Che invidia e che tormento vedere il proprio pargolo tutto boccoloso succhiarsi beatamente il dito e passeggiare per casa trascinandosi dietro un inutile coniglio di pezza.

Più il tempo passava e maggiore era il distacco tra il piccolo Lorenzo e il piccolo Olof, così si chiamava il bimbo prodigio, ormai in grado di dialogare correttamente in tre lingue e di calcolare le radici quadrate, mentre il povero Lorenzo lentamente si adeguava a dimenticare il suo biberon con gli orsacchiotti viola disegnati sopra.

A sei anni Olof era riuscito ad entrare in uno delle migliori scuole della nazione, a dieci avrebbe iniziato a frequentare il liceo.

Nel frattempo il Signor Papà e la Signora Mamma si rendevano conto che Lorenzo difficilmente avrebbe stracciato il vantaggio del piccolo rivale svedese. Ogni volta che si toccava l’argomento la lite tra i due coniugi era assicurata: il Signor Papà metteva in dubbio la paternità di quel figlio così diverso da lui, e, di conseguenza, la fedeltà della moglie, mentre la Signora Mamma rinfacciava al Signor Papà l’eccessiva dipendenza dalla nicotina, come motivo della mancata esplosione dei suoi geni in quel figlio così miseramente normale. Le liti, tuttavia, terminavano sempre allo stesso modo, con un pianto comune, le scuse reciproche, e le rassicurazione sui futuri progressi del figlio.

Un giorno, però, nel bel mezzo di una di queste liti, Lorenzo, senza un motivo preciso, decise di esplorare il mondo che lo circondava, abbandonando così la sua stanzetta azzurra tappezzata di poster di Albert Einstein, Neil Armstrong e, ovviamente, di Alfred Nobel, l’ideatore dell’omonimo premio.

A dieci anni il mondo è racchiuso tra le pareti lignee di un televisore. Il piccolo Lorenzo, invece, mettendo un piede davanti all’altro, abbandonò il perfetto soggiorno di casa, aprì la porta di ingresso e si immerse nella vita reale.

La famiglia di Lorenzo abitava vicino ad un boschetto, non molto distante dalla città. Tuttavia, dieci anni è un’età tremenda, e il piccolo Lorenzo dimostrò di ignorare completamente gli avvertimenti lanciati da Walt Disney circa la pericolosità dei boschi, pieni di lupi che vogliono mangiarti la nonna o di streghe pronte ad offrirti una mela avvelenata. Così, passo dopo passo, si avviò verso quel mare verde, scosso dal movimento delle fronde degli alberi che, cullate dal vento, davano l’idea di immense onde.

Terminata la lite, finito il valzer di lacrime, scuse e rassicurazioni, il Signor Papà e la Signora Mamma decisero di riprendere le  lezioni di chimica del piccolo Lorenzo. Quando trovarono il televisore spento e la porta di casa aperta, però, capirono che qualcosa non andava.

Subito pensarono che qualcuno avesse potuto rapire preventivamente il loro piccolo, per poterne sfruttare, in seguito, i progressi nel campo scientifico. Ah, l’orgoglio genitoriale molto spesso lavora in modo oscuro!

In un modo o nell’altro, finalmente, i due scienziati misero al corrente dei fatti anche la polizia. Il poliziotto grassoccio e sudato che mezz’ora più tardi suonò al loro campanello, annuì ripetutamente prendendo appunti circa i timori dei due genitori preoccupati, quindi, se ne andò grattandosi la testa e promettendo loro di riconsegnare il bambino sano e salvo.

Passarono i minuti e le ore, ma ancora non c’erano tracce del poliziotto grassoccio e del piccolo Lorenzo. Il telefono squillava in continuazione. I più importanti giornali del mondo volevano essere messi al corrente delle ultime ricerche del piccolo Lorenzo, i più popolari conduttori tv facevano a gara per invitare i genitori nelle loro trasmissioni.

Verso le otto di sera, quando ormai tutto faceva pensare al peggio, il poliziotto grassoccio suonò nuovamente al campanello di casa di Lorenzo. Aveva la camicia unta e sporca di sugo e cioccolato, la cerniera dei pantaloni abbassata e un viso stanco e grondante sudore.

“L’abbiamo trovato” disse, semplicemente, indicando la volante della polizia alle sue spalle.

Il Signor Papà e la Signora Mamma corsero ad abbracciare il frutto del loro amore e della loro ambizione, quindi, invitarono il poliziotto ad entrare in casa. Gli offrirono caffè e un pezzo di torta, e rimasero in trepida attesa di maggiori particolari su quella misteriosa sparizione.

“L’abbiamo trovato oltre il bosco, vicino alla ferrovia. Era seduto a terra e guardava i treni passare” disse il poliziotto con la bocca piena, sputacchiando pezzi di torta e nuvolette di zucchero a velo.

Quando i genitori vollero sapere che fine avesse fatto il rapitore, il poliziotto grassoccio, dopo aver mandato giù l’ultimo boccone di torta con un lungo sorso di caffè, rispose:

“Oh no, niente rapitore! Il piccolo ci ha detto di essersi allontanato volontariamente. Poi ha sentito un rumore oltre il bosco e l’ha seguito. Devono piacergli i treni, evidentemente” e dicendo ciò mise una mano in testa al piccolo Lorenzo e iniziò a scompigliargli i capelli.

Una volta che il poliziotto ebbe lasciato l’abitazione, con la camicia ancora più sporca di quando vi era entrato, il Signor Papà e la Signora Mamma fissarono delusi il loro figlioletto, mentre questi giocava a fare la locomotiva, facendo “ciuff ciuff” con la bocca.

Negli anni, Lorenzo, si allontanò spesso da casa, ed ogni volta veniva ritrovato seduto davanti alle rotaie del treno, divertito dal rumore metallico dei vagoni sulla ferrovia.

Curiosamente, pensava Lorenzo, ormai divenuto adulto, lui stesso era stato un vagone di un treno: non aveva potuto scegliere lui la sua strada. Aveva studiato e si era laureato con il massimo dei voti. Tre lauree, due dottorati e migliaia di pubblicazioni scientifiche.

Il bambino tutti boccoli aveva lasciato il posto ad un uomo con i capelli corti, la barba incolta e degli occhiali da lettura tondi. Lorenzo, rimuginava tra sé, non era stato una locomotiva, perché nonostante anche quelle avessero la strada segnata, in qualche modo guidavano il treno. Lui, invece, si sentiva l’ultimo vagone del convoglio, quello trascinato che non trascina niente altro. I suoi genitori avevano scelto per lui perfino la sua compagna: una scienziata bionda, tanto superba e intelligente quanto noiosa e insignificante. Lui spesso aveva provato a portarla oltre il bosco, per immergersi nella natura e ascoltare lo sferruzzare del treno sulle rotaie. Lei, però, ogni volta aveva rifiutato adducendo i nomi latini delle sue innumerevoli allergie, come evidente impossibilità di uscire dal laboratorio.

Appena poteva, quindi, Lorenzo evadeva da quella gabbia che era il suo lavoro, per correre oltre il bosco, stendersi per terra e ascoltare il proprio respiro. Recentemente aveva scoperto anche un laghetto un paio di chilometri a nord della ferrovia. Era rimasto in piedi a bocca aperta a guardarlo. Non aveva mai visto qualcosa di più vero.

Fu così che, un giorno, decise di andare oltre. Volle diventare un tutt’uno con la natura. Si tolse, quindi, i vestiti, e si calò, nudo, nelle fredde acque di quel laghetto.

Le due settimane successive che trascorse a letto con un febbrone spaventoso, però, le passò assaporando, beato, la sensazione di freddo sulla pelle, l’odore dell’erba bagnata, il canto degli uccelli, il sapore dell’acqua fresca.

Provò inutilmente a spiegare queste sensazioni alla fidanzata, la quale, per tutta risposta, lo spedì dal migliore psicologo della città. La sentenza era già scritta: stress da troppo lavoro. Il direttore di laboratorio, molto affezionato ai genitori di Lorenzo, decise di mandarlo in giro per l’Europa per una serie di noiose conferenze.

Lorenzo passò da un aereo ad un altro, da un college inglese ad un lussuoso hotel parigino. La lontananza da quella sua piccola fonte di serenità lo stancò molto. Immerso nel bosco aveva la possibilità di annullare se stesso, di dimenticare le pressioni che lo circondavano. Solo nel bosco era veramente nihil, nulla, era solo un’essenza, uno dei tanti rumori del bosco, uno dei migliaia di diversi colori e odori. Odiava indossare giacca e cravatta, detestava essere presentato come un genio, avrebbe dato via le sue tre lauree e i tanti premi vinti pur di passare un solo minuto nel nulla.

Aeroporto di Roma, di Parigi, di Londra, di Budapest, di Madrid.

 “Un solo minuto datemi un solo minuto nel mio nulla, dimenticatevi di me”

Stazione ferroviaria di Lisbona, di Barcellona, di Vienna, di Zurigo.

 “Scordatevi chi sono, da dove vengo, che cosa ho fatto. Zitti, silenzio!”

Università di Dublino, di Stoccolma, di Oslo, di Berlino.

“Uccidetemi, cancellate la mia esistenza, dimenticatevi di me”

I pensieri iniziavano a torturare le stanche membra del piccolo grande genio. Era troppo e non avrebbe voluto essere niente. Sin da bambino. Gli sarebbe bastato passare l’intera vita seduto ad ammirare i treni che passavano, e invece non aveva nemmeno potuto scegliere chi frequentare. Era un genio, ma si sentiva inutile, perennemente fuori luogo.

Quando, dopo un mese, finalmente tornò a casa, trovò tutti i suoi colleghi ad aspettarlo per festeggiare la lieta notizia. La sua ricerca sulla possibilità di convertire il petrolio in una sostanza “pulita” per l’ambiente, in modo da riparare ai danni causati dall’affondamento delle petroliere nei grandi mari, era piaciuta a molti esperti del settore e, pian piano, aveva preso la strada di Oslo. Dopo anni di ricerche, finalmente anche lui avrebbe potuto ambire al Nobel.

Fu quello il momento in cui accadde tutto. Quando il direttore del laboratorio di ricerca terminò il suo brindisi, tutti si voltarono verso Lorenzo in attesa di un discorso di ringraziamento.

Nessuno, ancora oggi, si ricorda esattamente quella strana vicenda. Tuttavia, in molti la raccontano così.

Ascoltato il pomposo brindisi in suo onore, Lorenzo iniziò a sudare. La palpebra dell’occhio destro iniziò a battergli freneticamente. Aveva caldo, stava male, molto, molto male. Si allentò il nodo della cravatta, si sbottonò il primo bottone della camicia, quindi…

Accadde l’inatteso. Prima sgranò gli occhi, come se avesse raggiunto chissà quale verità eterna, come se avesse appena scoperto la formula dell’elisir di eterna giovinezza, o di lunga vita. Si tolse la giacca del completo e la buttò a terra, poi scoppiò a ridere di gusto. Piegato in due dalle risate.

Gli invitati si guardarono tra loro, senza capire. Lorenzo si tolse la cravatta, la buttò via e iniziò a correre. Gli ospiti che erano accorsi a festeggiarlo iniziarono a corrergli dietro, e, con orrore di alcune donne, e piacere di altre, tutti notarono che Lorenzo aveva iniziato a spogliarsi. Senza smettere di correre si era tolto la camicia, quindi la canottiera, lasciando tutti i suoi indumenti per terra, come una scia.

Iniziò a piovere. Un vero temporale. Un diluvio universale, lo definì qualcuno. La maggior parte degli invitati abbandonò quell’insensata corsa, mentre Lorenzo continuava ancora a spogliarsi correndo. Il direttore del laboratorio dove lavorava fu l’unico a seguirlo fino al bosco. All’ingresso del grande bosco verde Lorenzo si tolse anche i banali mutandoni grigi, restando completamente nudo. Si buttò a terra e baciò il terreno, reso fangoso dalla pioggia. Quando si rialzò era coperto di fili d’erba e bagnato fradicio. Corse dentro al bosco senza voltarsi indietro. Il direttore pensò fosse impazzito. Guardandolo così bagnato e felice, si rammaricò solo per non poter essere nominato nel discorso di ringraziamento alla cerimonia di consegna del Premio Nobel, quindi, alzò le spalle, si girò e riprese la strada del paese.

Nessuno ha mai veramente capito cosa avesse pensato Lorenzo l’attimo prima di impazzire. Quale era stata l’illuminazione che l’aveva condotto sulla strada della pazzia?

Sin da quando, da piccolo, ne era rimasto affascinato, Lorenzo aveva sempre voluto essere un treno: avrebbe voluto viaggiare tra boschi, città, campagne e nazioni. Quando era cresciuto, invece, aveva capito di non voler essere un vagone qualsiasi. No, lui voleva essere una locomotiva. E, invece, aveva dovuto ammettere a se stesso di non essere altro che l’ultimo vagone del convoglio.

In quel momento, quando si vide gli occhi di tutti puntati addosso, Lorenzo capì che per tutta la vita si era sbagliato. Lui non voleva essere un treno. Non voleva essere una locomotiva, né nessun altro vagone. I treni hanno la strada segnata, e se deragliano mettono fine alla loro esistenza. I treni conoscono solo quelle strade. Potrebbero essere migliaia, milioni di strade, forse, però, alla fine, anche le strade saranno sempre le stesse.

In quell’istante, Lorenzo, capì di non aver mai voluto avere una strada da seguire. Si rese conto che avrebbe preferito essere parte del nulla che compone  tutto il mondo. In quell’attimo di epifania, Lorenzo aveva scelto di essere una gazzella. Avete presente una gazzella inseguita da un leone? Nell’istante in cui il feroce re della foresta prova ad affondare le fauci nell’agile corpo della gazzella, questa, mossa da un’estrema voglia di vita, si contorcerà su stessa, per saltare lontano dalle grinfie del leone e fuggire via nella savana. In quel lunghissimo attimo, il treno Lorenzo si era sentito una gazzella. Con un balzo atletico era riuscito a fuggire dalle proprie rotaie, per scappare lontano.

Nessuno seppe più nulla di Lorenzo. Quell’anno il Nobel lo vinse l’ex bambino prodigio (ed ex rivale di Lorenzo), Olof, con un progetto che negli anni si rivelò senza senso, ma questa è un’altra storia, diversa da quella del treno che un giorno si scoprì gazzella.



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