Il tribunale ha respinto la richiesta di Ruggero Jucker di affidamento in prova ai servizi sociali.
Conoscevo Alenya Bortolotto. La conoscevo come si può conoscere una ragazza che lavora in un negozio dove si va ogni tanto, a comprare una camicia. Il negozio è ancora lì, a Milano, in corso Europa. Alenya ci lavorava ogni tanto, studiava Scienze Politiche.
Ruggero Jucker a Milano lo conoscevano in tanti. Lo conoscono in tanti. È il figlio di una famiglia della borghesia di Milano, solida e ricca. La buona borghesia milanese. Ruggero dava una mano alla mamma: lei fu la prima tra le signore eleganti a capire che la sua passione per la cucina si poteva trasformare in un’attività. Lo fece più di 25 anni fa, la chiamavano signora del catering. Poi Ruggero aprì un posto dove cucinava zuppe, zuppe di ogni tipo, buonissime. Aveva successo quel negozio, era il 2001.
Alenya e Ruggero stavano insieme. Poi accadde qualcosa. Anzi, accadde tutto.
Quella del 2002 era un’estate più o meno come questa, c’erano appena stati i Mondiali, per giorni si era parlato di un poveraccio ecuadoriano dal bel nome, Byron Moreno. Faceva l’arbitro, gli italiani gliene dissero di tutti i colori.
Una notte di quell’estate, in via Corridoni, in centro a Milano, i pochi che non erano via per il weekend furono svegliati da urla disumane. Ruggero Jucker nudo in strada urlava “Io sono Osama Bin Laden”. Una scena incongrua, grottesca. Però era sporco di sangue Jucker. Semplicemente, il suo cervello aveva fatto cortocircuito. Così, d’un botto, la coscienza era esplosa. Ruggero Jucker aveva fatto a pezzi Alenya. Non è un modo di dire, una frase fatta. L’aveva fatta davvero a pezzi, colpita ovunque con un coltello da sushi. Lei aveva provato a difendersi. Quaranta coltellate, e poi quelle urla: “Io sono Osama Bin Laden”. Trovarono un pezzo del fegato di Alenya in cortile.
Parlarono tanto di droghe, qualche giornale scrisse che Jucker aveva fumato un “superspinello”. Proprio così, un superspinello.Non c’entrava nulla nessuna droga. Semplicemente in quella notte d’estate a Ruggero Jucker era partito il cervello.
Ai funerali di Alenya c’era un sacco di gente, anche Marcello Dell’Utri, era amico del padre. La cerimonia si aprì con la voce di Battiato che recitava “Ti invito al viaggio, in quel paese che ti assomiglia tanto. I soli languidi dei suoi cieli annebbiati… Laggiù tutto è ordine e bellezza, calma e voluttà”. La bara uscì dalla cappella e Jobin cantava “La ragazza di Ipanema”. Anche questo era incongruo.
Il giudice Guido Salvini condannò Ruggero a Jucker a 30 anni con il rito abbreviato. Riconobbe la semi infermità mentale ma anche la grave crudeltà nell’agire. Ruggero è sempre stato a San Vittore, fin dall’arresto. Lì, regolrmante, è stato seguito da uno psichiatra : tre visite alla settimana pagate dalla famiglia. Al processo d’Appello ci fu un accordo: aggravanti e attenuanti furono bilanciate, la pena scese a 16 anni. Gli avocati di Jucker si impegnarono a non presentare ricorso in Cassazione.
Sono passati otto anni: metà della pena è stata scontata. Ruggero Jucker può chiedere di esere affidato ai servizi sociali, inizierà a uscire dal carcere. È così, è la legge, ci mancherebbe altro. È giusto così. È giusto così?