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Il valore di un dono chiamato lettura

Da Marcofre

Chi segue questo blog sa che per molte settimane, di venerdì, ho pubblicato un post dedicato alla lettura di un racconto di Raymond Carver: La casa di Chef. L’ho fatto soprattutto per me perché credo (e l’ho ripetuto non so quante volte), sia essenziale non solo leggere. Ma leggere in un certo modo.

E mi sono domandato: che senso ha avuto? La domanda me la pongo mentre sto leggendo “Il ladro della Bibbia” di Goran Tunstrom (ma esiste anche in versione ebook), mentre sulla scrivania c’è il libro arrivato via posta “Vuoi star zitta per favore?” di Raymond Carver, edito da Minimum Fax. Senza contare tutto il resto…
Torno alla domanda: Che senso ha avuto?

E da qui si può dipanare una riflessione dotta su cosa la letteratura è in grado di offrire. Sugli scopi che ha, che dovrebbe avere: eccetera eccetera.
Per quel che mi riguarda mi sono reso conto che leggere non era più sufficiente. Se scrivere è davvero un impegno, una vocazione, una missione, un mandato degli Dei (scegliete pure quello che più vi piace), giunge il momento di… alzare il cofano e dare un’occhiata al motore.

L’idea sarebbe, come avevo annunciato tempo addietro, proseguire con un racconto di Flannery O’Connor. Però ci devo pensare bene, valutare il tempo, gli altri impegni.
Ma sto divagando, vero?

Il senso di quella lettura lenta, quasi a piccoli sorsi, ha avuto come risultato alcune banali considerazioni.

Il racconto è una faccenda seria. Se si pensa che questo tipo di narrativa sia di serie B, farebbe bene almeno a non andare in giro a dirlo. Farebbe una brutta impressione, e di certo la sua considerazione ai miei occhi precipiterebbe. Basterebbe notare le pause, le virgole, certi silenzi de “La casa di Chef” per rendersi conto che cosa vuol dire scrivere un racconto che comunichi efficacia e valore.

La lettura è un lavoraccio. Forse dipende anche dal tipo di storia che si affronta. Qui mi sento di dire che quando alcune persone affermano: “Leggere? Non ho tempo. È faticoso”. Diciamo che non condivido affatto, ma capisco.

Questo accade perché si pensa che il libro in fondo sia solo un prodotto; invece è molto di più. Un bene, e come tutti i beni rimette in discussione l’individuo. D’accordo, l’individuo deve accettare di mettersi in discussione. Ecco perché esistono uomini e donne che hanno letto tonnellate di libri, e sono degli autentici bifolchi.

Però non è un passaggio agevole, e molti preferiscono non osarlo nemmeno. Quando mi resi conto, molti anni fa, di essere ignorante, e scoprii il potere della parola, leggere “Guerra e Pace” restò sì impegnativo (non può essere altrimenti: si deve sentire la fatica). Però sapevo che lì c’era il fuoco. Ne avevo bisogno per me. Non per salvare il mondo, per avere successo, e bla bla bla.
Era un dono che facevo a me stesso.

Non mi importa un fico secco della sua capacità o meno, di adattarsi alle dinamiche turbolente del mercato. O che sia poco “adatto”. Si tratta di un dono.

Confermo che sul lavoro non mi è mai servito a un accidente leggere: dove andavo io erano richieste altre abilità. Eppure, alla fine (della giornata, o della settimana), era cosciente che quel dono era sempre con me. Agli occhi altrui non mi rendeva migliore o particolare, ma ci sono delle situazioni in cui importa solo essere sé stessi, restare sé stessi a dispetto di ambienti, lavoro. Probabilmente in quegli istanti comprendi il valore di quel dono.


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