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Il vangelo secondo pasolini

Creato il 12 febbraio 2013 da Giuseppeg
IL VANGELO SECONDO PASOLINIIl Vangelo secondo Pier Paolo Pasolini: è proprio questo il nome che si sarebbe adattato pienamente a questo film capolavoro, ingiustamente bistrattato e poi caduto nell’oblio fino a pochi anni or sono, quando finalmente è stato riscoperto e rivalutato secondo i suoi pregi. La storia di Gesù infatti non era mai stata trattata con tanto rigore e insieme tanto rispetto, al di là di ogni intento agiografico o dissacratorio. Ciò che viene innanzitutto rispettato è proprio il testo evangelico, che rappresenta l’unica fonte attendibile per il vero credente; se ne rispetta il dettato parola per parola, rendendo inutile di fatto ogni copione. Le immagini poi si limitano a chiarire il testo, ed hanno un ruolo puramente illustrativo. Gli attori stessi sono presi dalla strada, non sono attori professionisti: l’intenzione del regista non è quindi quella di creare un mondo a parte, costruire una finzione indipendente dal reale, un universo alternativo a cui credere e nel quale abbandonarsi. Al contrario: il cinema vuole svelare continuamente i suoi segreti, e lo spettatore resta sempre consapevole di sé, e del fatto che non lo si vuole ingannare, ma si desidera solo comunicare con lui. Pasolini non intende, insomma, farci rivivere alcuni episodi del Vangelo: ciò che gli preme è rinviarci a quell’idea che sta dietro la finzione, e per cui la finzione è soltanto un rimando, un invito, un’allusione. Ecco dunque spiegate le ambientazioni poco curate, gli edifici che sembrano appartenere, e di fatto appartengono, più ai nostri tempi che a quelli di Cristo; gli attori stessi, semplici prestanome o pantomime, si limitano ad offrire i loro corpi e basta, restando pur sempre individui radicati nel presente, con le loro gioie e con le loro ambasce. In questo modo, la storia di Cristo è calata completamente nella storia degli uomini;  Gesù, pur mantenendo la sua divinità – i miracoli e la resurrezione sono tutti rispettati -, si trova a vivere in un mondo di uomini, e ad essere uomo lui stesso, calato in un mondo concreto di speranze, angosce, di fame e povertà. Proviamo a rivedere la primissima sequenza, per cercare di capire il linguaggio peculiare del regista Pasolini, e insieme la sua poesia. Il film si apre con un bellissimo primo piano di Maria: il suo volto è preoccupato, ma non eccessivamente espressivo. Questa infatti non è la Madonna, ma solamente qualcuno che ci vuole ricordare la sua storia. Con uno stacco del montaggio, ci appare Giuseppe che la fissa dalla parte opposta. Il suo sguardo intende solo suggerire l’angoscia, ma lui non è veramente angosciato. L’attore che lo impersona è Marcello Morante, fratello della più famosa Elsa. A un certo punto, l’inquadratura cambia, e basta questo cambiamento a raccontarci tutto quanto l’antefatto. Maria ci appare infatti in campo medio, in un’immagine stupenda che rimanda alle tele famose di Lippi e Botticelli: i lineamenti della donna, la sua posa, il tratto impervio di terreno intorno a lei; la casa stessa, col suo tetto diroccato e l’uscio aperto, richiamano alla mente i capolavori di questi due artisti. Al di là poi del suo valore puramente estetico, l’inquadratura ci permette di capire il motivo dell’angoscia che attanaglia i personaggi: la donna infatti è chiaramente incinta. Giuseppe si allontana, addolorato. E il suo dolore lo intuiamo quando, giunto in paese, osserva un gruppo di bambini intenti a giocare. L’associazione, per noi, è immediata: in Giuseppe c’è il desiderio frustrato di essere padre. A quel punto, vinto dal dolore, si abbandona su una roccia, con la testa posata sopra un braccio. Anche qui l’allusione è palese: questa volta si tratta di Giotto, e del suo Sogno di Gioacchino. E in effetti il personaggio di Giotto ha la stessa espressione, la stessa umana concretezza del Giuseppe di Pasolini. Inoltre, anche Giuseppe sogna, e sogna un angelo che, con un sorriso, gli annuncia che il bambino nel grembo di Maria è nientemeno che il Cristo, il Figlio di Dio che si è incarnato presso gli uomini. Quelle dell’angelo sono le uniche parole pronunciate fino a quel punto, e sono quelle del Vangelo; tutta la parte narrativa e descrittiva, invece, si è sviluppata attraverso le immagini. E proprio in questo è la grandezza del regista, e del poeta innanzitutto: nell’avere cioè fornito il cinema di un linguaggio espressivo adeguato, tale cioè da sostituire degnamente le parole, e in fattispecie le parole di un poeta.

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