“Il veleno di Furtei” è lo spazio nel quale abbiamo raccolto i post, le immagini, i video, le interviste che il nostro popblog ha realizzato negli anni in cui ha seguito la triste vicenda del cianuro di Furtei. Oggi aggiungiamo un nuovo piccolo tassello a quel nostro racconto: il reportage di John Dougherty, un noto giornalista statunitense che qualche anno fa venne in Sardegna a studiare il caso di Furtei, e che per questo volle incontrarci. Fu durante quella conversazione che capimmo quanto la miniera di Furtei fosse un tema di portata autenticamente globale.
Dopo anni di silenzio, oggi, improvvisamente, quel lago di veleno è balzato al centro del dibattito locale. Le ragioni sono tante: strumentalizzazione politica, campagna elettorale in avvicinamento, inchieste giudiziarie, potenza simbolica del disastro. È bene che se ne parli, ma il timore che questo polverone si dissolva senza lasciare sul terreno nessun risultato concreto c’è tutto.
Sono anni che “il veleno di Furtei” cerca di dirci qualcosa, ma invano.
Proviamo a spiegarci meglio: oltre 2000 cave abbandonate per circa 350 comuni ci dicono che c’è una piccola Furtei in ogni paese della Sardegna. E che nel cuore delle classi dirigenti locali ha covato (e cova ancora) il sogno di attuare piani di rinascita in sedicesima e sviluppini locali dal saporaccio palingenetico: per dare lavoro, prendere voti, fare tutti felici e contenti. Solo che qui, lo vedete, invece del lieto fine abbiamo avuto lo sbancamento del territorio, il suo avvelenamento, la dissoluzione di capitali immateriali di grande rilevanza economica.
Furtei è la puntina di un disco rotto, che in Sardegna continua a girare e fa ballare classi dirigenti, elettori e modelli di sviluppo fuori tempo massimo. Sarebbe ora, finalmente, di cambiare musica.
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