di Alfonso Nannariello
Mamma passò la cruna della sua vita all’una di un giorno di febbraio. Usciti dalla chiesa fu fatta un’altra foto, ma ai piedi degli sposi non si vedono coriandoli, né petali di fiori, né chicchi di riso.
A mia madre suo padre di certo non le lanciò il suo, né credo le fece poi gli auguri. Di solito erano le madri a soffrire l’offerta delle figlie date al minotauro del marito.
Poiché mamma la sua non l’aveva, fu mio nonno a sentire l’urto di vederla sposa. Di certo non poteva impedire che sposasse, ma deve aver avvertito come un furto il matrimonio di quella che era rimasta ad accudire in casa.
Mamma, in alcune delle foto di quel giorno, sembra inesistente. Nell’abito, prestato o noleggiato, la si vede a stento. Tutta vestita di bianco con un mazzo di fiori bianchi nella mano, è sotto quel bianco velo appena trasparente. Dalla velatura crespa non dà proprio l’impressione di saper scacciare la nube dell’afflizione, ma di tenersi le lacrime chiuse nella gola, di raccogliere dentro tutto il pianto.
Mio padre, da parte sua, ha l’aria di uno che compie fino in fondo il suo dovere. Serio e maturo, ben vestito e ordinato, composto sul busto con accortezza, con i guanti bianchi in una mano, somiglia a un diplomatico nel giorno della firma di un trattato.
Il suo era contegno, ma la verginalità del bianco della cravatta di raso e di un piccolo fiore al foro dell’occhiello, rischiaravano sul viso una tristezza.
Una volta mi disse che ogni giorno pensava a suo padre, e credo che quel giorno la sua ombra, per quanto regolata nei toni bui, deve aver vagato a lungo intorno a lui.