di Maria Serra
Che il Venezuela senza Hugo Chávez non sarebbe stato più lo stesso era cosa pressoché scontata, ma che gli equilibri interni mutassero così velocemente – anche se più di qualche avvisaglia era nell’aria – non era esattamente prevedibile. Ancor meno lo erano gli scontri che nella notte successiva alle elezioni sono scoppiati a Caracas tra le opposizioni, che non intendono accettare l’esito elettorale, e i sostenitori del neo-eletto Presidente Maduro. Il bilancio è di 7 morti e 135 arrestati con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata – se l’inchiesta penale avviata da Luisa Ortega Diaz, responsabile della Procura Generale del Paese, dovesse verificare i legami degli attuali manifestanti con quelli del tentato colpo di Stato del 2002 ai danni di Chávez – a destabilizzare il Paese in questa delicata fase di transizione. Nervi pronti, insomma, a saltare non appena si sarebbe presentata l’occasione propizia, con il rischio, tuttavia, di trasformare il “vincitore morale” nello sconfitto per eccellenza e di favorire, di converso, una fazione avversaria all’interno della quale le frizioni interne stavano già venendo a galla. Un’occasione persa? Forse. E per chi? Andiamo con ordine.
In vista di un futuro politico completamente da ridisegnare, ciò che c’è di certo e la base da cui la leadership dovrà da oggi ripartire è proprio il dato fuoriuscito dalle urne: un Paese esattamente diviso a metà, condizione – com’è stato fatto notare – di per sé normale per qualsiasi altro Paese, ma non per un Venezuela che ha fatto della rivoluzione bolivariana e del nuovo socialismo un baluardo su tutti i livelli della società. Nicolas Maduro, esponente di spicco del cosiddetto “civilismo chavista” del Partido Socialista Unificado de Venzuela (PSUV) – già Ministro degli Esteri nell’ultimo triennio e Presidente ad interim dopo la scomparsa del leader maximo dello scorso 5 marzo – ha infatti vinto con solo il 50,66% contro il 49,07% di Enrique Capriles Radonski, candidato della Mesa de la Unidad Democratica (MuD). Appena 235mila voti di differenza, cosa che ha indotto il candidato socialista a chiedere un riconteggio delle schede mentre anche Capriles presentava le prove di almeno 3200 casi di brogli.
Fonte: La Razon
Eppure anche la caduta libera nei consensi dello stesso ex Presidente (nel 2006 era stato eletto con il 63%) doveva essere da monito per un regime che, specialmente dopo l’aggravarsi della malattia del caudillo di Barinas, ha iniziato a perdere coesione interna e, contemporaneamente, anche di vista le reali esigenze del Paese. Perché forse ciò che ormai sembra si stia delineando è che, più che Nicolas Maduro – a cui non può certamente essere imputata la colpa di non avere lo stesso carisma del colonnello bolivariano –, ad essere “bocciato” alle urne è stato il programma/modello di un’intera classe dirigente e ad essere ulteriormente ridimensionato è stato proprio il “chavismo”. In questo senso un segnale chiaro proviene dalle esternazioni di Diosdado Cabello – ex militare, potente presidente del Parlamento, referente politico della classe di nuovi ricchi cresciuti all’ombra della rivoluzione e che per alcuni membri della leadership avrebbe dovuto assumere l’incarico della Presidenza ad interim –, secondo il quale la leadership deve chiedersi “perché le classi popolari scelgono in parte di votare per i loro sfruttatori”. Deterioramento della situazione economica e sociale (inflazione elevata, debito interno più che raddoppiato, aumento della criminalità, corruzione rampante, scarsità di cibo, acqua ed elettricità), carenze infrastrutturali ed economia poco diversificata (questa dipende ancora fortemente dalle rendite degli idrocarburi, che contribuiscono al 90% dell’export totale e a più del 50% delle entrate fiscali): sono stati questi i punti di debolezza su cui Capriles ha potuto far leva. Ma il tempo del “mea culpa” non è ancora venuto.
Le prime dichiarazioni a caldo degli alleati di Maduro, pur dando già contezza degli equilibri in casa del PSUV, non hanno trovato il tempo di attecchire. Tutto il regime ha fatto fronte compatto dinnanzi gli avvenimenti della notte del 16 aprile. Lo stesso Cabello ha accusato il leader dell’opposizione di essere uno dei principali responsabili delle violenze compiute da “gruppi di fascisti”; anche Maduro lo ha immediatamente associato a Pedro Carmona, il capo della confindustria locale autore del fallito golpe del 2002, ribadendo di fatto le accuse di cospirazione lanciate questo inverno a seguito di una visita di Capriles in Colombia. A tali affermazioni Maduro aggiungeva che a breve sarebbe stato pubblicato uno scottante dossier sull’“immenso caso di corruzione” che coinvolgerebbe figure di primo piano di Primero Justicia, il partito che Capriles ha contribuito a fondare nel 2000. Così, a seguito dell’uccisione di altri quattro anti-chavisti in altre parti del Paese, il Ministro degli Esteri Elias Jaua ha affermato che “da ieri l’opposizione venezuelana ha cessato di essere una opposizione democratica”. Durante un incontro con il personale diplomatico accreditato a Caracas, il titolare degli Esteri ha mostrato un video con immagini di presunti attacchi nei confronti delle sedi PSUV, del Consejo Nacional Electoral e di alcuni centri diagnostici nei quali lavorano i medici cubani inviati nel Paese dal regime amico di Raul Castro.
“L’illegittimo (Nicolas Maduro) e il suo governo hanno ordinato le violenze per evitare il conteggio dei voti! Sono loro i responsabili!“: è questa la reazione di Capriles alle accuse che gli sono state mosse, decidendo di non abbassare dunque i toni. Eppure la soluzione allo scontro politico potrebbe essere proprio nelle sue mani e nella sua capacità/volontà di porsi come interlocutore responsabile per l’unità del Paese, legittimando di fatto lo straordinario rullino di marcia impresso negli ultimi tempi e che lo aveva portato ad essere rieletto come governatore dello Stato di Miranda – che è contiguo al Distretto Metropolitano di Caracas con un bacino, dunque, di almeno 3 milioni di cittadini – battendo proprio i due protetti di Chávez, Cabello e Jaua.
Nonostante Capriles cerchi di approfittare delle divisioni del PSUV, la politica del muro contro muro, almeno per il momento, potrebbe non essere produttiva, perché rafforzerebbe il regime e rischierebbe di logorare dal di dentro una forza che resterà opposizione – a meno di stravolgimenti – fino al 2019 (anno delle prossime elezioni presidenziali in base alla modifica costituzionale) e che si presenterà tale anche alle elezioni legislative del 2015. Troppi anni, insomma, perché il MuD riesca a tenere un profilo così alto, specialmente se Maduro riuscirà ad incentrare fin da subito il proprio mandato sulle questioni economiche maggiormente sentite dalla popolazione, compattando attorno a sé il fronte chavista.
La sfida che si presenta innanzi al neo-Presidente in effetti non è facile: alle istanze economiche e al rinvigorimento dell’opposizione – cui non può non aggiungersi anche una certa pressione da parte di attori esterni, ad iniziare dagli Stati Uniti, che hanno criticato l’ufficializzazione dei risultati prima della fine del riconteggio dei voti – si aggiungono gli equilibri in seno alla formazione di governo. Non si tratterà solo di dimostrare di essere il degno successore del “sogno bolivarista” – magari giocando proprio la carta dell’anti-americanismo più esasperato, puntando sul sistema di alleanze regionali (ALBA e UNASUR, oltre alla CELAC) –, ma di favorire all’interno del partito quell’attitudine al dibattito, al confronto in senso orizzontale e ai meccanismi di check and balances che il centralismo di Chávez non aveva permesso e che molti auspicherebbero, ad iniziare dallo stesso ex generale Cabello. Tutto ciò senza considerare di fatti la necessità di rafforzare i rapporti con la classe militare (11 dei 20 Stati in mano al PSUV sono retti da ex appartenenti alle forze armate), nonché di raccogliere il consenso di quella parte dello stesso esercito – almeno il 60% – che continua a non sentirsi legata alla visione di Chávez.
E se questo dialogo si rivelasse un boomerang? È una partita rischiosa nella quale il neo-inquilino di Miraflores – che per inesperienza non ha ancora gli strumenti politici adeguati – rischia di rimanere scottato. Ma che perlomeno dà sicuramente ragione a Capriles su un punto: “Maduro NON è Chávez”. Uno slogan più volte ripetuto in quest’ultima campagna elettorale e che, in un modo o nell’altro, continueremo a sentire nel corso dei prossimi sei anni.
* Maria Serra è Dottoressa in Scienze Internazionali (Università di Siena)