Sdisonorate è un dossier a cura di Irene Cortese, Sara Di Bella e Cinzia Paolillo; hanno collaborato ai testi Angela Ammirati, Danila Cotroneo e Laura Triumbari. Lo trovate QUI oppure potete richiederne una copia in pdf inviando una mail a [email protected]. Per la prima volta in assoluto, in un’unica pubblicazione, sono state raccolte le storie di tutte le donne ammazzate dalla mafia, dalla fine dell’ottocento ai giorni nostri. Nel dossier sono presenti interviste a Rita Borsellino, Angela Napoli, Amalia De Simone, una prefazione di Ombretta Ingrascì e numerose altre testimonianze. Come spiega Celeste Costantino nella sua significativa prefazione, l’obiettivo principale del lavoro è, da una parte, la necessità di restituire dignità a donne dimenticate e, dall’altra, quella di svelare una falsa credenza del “codice d’onore” delle mafie, secondo la quale i clan non uccidono le donne.
“Sono morte per l’impegno politico, sono rimaste vittime di delitti d’onore, sono state suicidate, sono state oggetto di vendette trasversali, sono morte per un accidente, sono rimaste incastrate dentro una situazione familiare e mafiosa da cui non sono riuscite a uscire.”
Sdisonorate è un lavoro quanto mai importante, perché raccoglie storie di donne attraverso le quali viene svelata l’ipocrisia, l’omertà e i disvalori di un sistema mafia che coinvolge tutte-i noi. Attraverso le interpretazioni offerte, rappresenta un solido punto di partenza per comprendere e approfondire riflessioni sulla condizione femminile, sulla concezione familistica e del patriarcato sociale.
Sono “l’onore della famiglia”, o meglio del maschio, e le regole ad esso legate a prevalere, sempre e necessariamente, su quelli che comunemente vengono considerati gli affetti più cari. La donna della famiglia mafiosa, non può frequentare tutta una serie di persona della società civile. Quando i Pesce di Rosarno scoprirono che la figlia Annunziata frequentava un carabiniere, la ragazza venne uccisa dalla propria famiglia e fatta “scomparire”. Angela Costantino, sposata con Pietro Lo Giudice, è “scomparsa” nel 1994. Il suo cadavere non è mai stato ritrovato. Era giovanissima ed era incinta, ma il figlio che portava in grembo non poteva essere del marito che si trovava in carcere. Per cui “la famiglia”, per difendere l’onore del boss-marito, la fece strangolare e seppellire in un terreno mentre la sua auto finiva in mare, per simulare il suicidio. Solamente il 14 aprile scorso la Squadra mobile di Reggio Calabria ha arrestato, con l’accusa di avere commesso l’omicidio, Vincenzo Lo Giudice (zio di Pietro), un cognato ed un nipote di V. Lo Giudice. Sono passati circa tre anni dalla scomparsa di un’altra donna, Barbara Corvi, legata da parentela ad Angela Costantino. Erano cognate, Angela era sposata a Pietro Lo Giudice e Barbara a Roberto Lo Giudice. Sono passati quasi tre anni dalla scomparsa di Barbara e a vederla per ultimo è stato proprio il marito, che ha sempre sostenuto la tesi di un allontanamento volontario. Dov’è Barbara?E a che punto sono le indagini?
Lungi dal fare un’apologia delle donne che si trovano a contatto con le mafie, non sfugge quanto sosteneva anni fa Renate Siebert in “ Donne di mafia. Affermazione di un pseudo-soggetto femminile. Il caso della ‘ndrangheta”, a proposito del ruolo delle donne nelle organizzazioni criminali di stampo mafioso, e cioè che nel tempo si è fatta strada un’immagine differente ed in forte contrasto da quella stereotipata di donne con un ruolo passivo di madri e mogli, “arretrate” e all’oscuro delle attività criminali dei familiari. Uno pseudo-soggetto femminile aderente all’ordine materiale e simbolico maschile, in maniera attiva, irresponsabile nei confronti delle altre donne ma prima di tutto di se stessa.
La Siebert, nel testo citato, partendo da una riflessione sulla criminalità femminile all’interno delle dinamiche specifiche della ‘ndrangheta e sulla questione del rapporto tra donne e violenza, arrivava a fornire una serie di interpretazioni che, rispetto ai fatti di cronaca più recenti, mi sembrano assolutamente lungimiranti.
Se è vero che gli spazi di una collaborazione in condizioni segnate da violenza e ricatti sono ridotti, come può avvenire quando c’è o si teme la sottrazione dei figli – sottolineava R. Siebert – non si tiene in conto che la violenza vissuta su se stesse può raggiungere livelli di insopportabilità nel momento in cui, più che riguardare le attività mafiose, investe le relazioni personali più intime.
A differenza degli uomini, continuava R. Siebert, le donne sono portatrici di una inconsapevole memoria storica della vulnerabilità del proprio corpo. In questo senso, la “collaborazione femminile” é per lo più agevolata dalla violenza che l’uomo usa sul corpo delle donne e non rappresenterebbe una ribellione alla violenza sperimentata nell’ambiente criminale ma è principalmente la violenza subita sul proprio corpo a far scattare la molla che spinge le donne a collaborare.
Rita Di Giovane, raccontando la sua terrificante storia, dice:
“[…] Io ero cresciuta con mia nonna, protetta nonostante mio nonno avesse osato mettermi le mani addosso, però, quando io l’ho detto a mia nonna ha reagito in un modo pazzesco. Cioè lei non mi mollava più, mi portava via con lei, cioè come ti posso spiegare, anche al letto lei non dormiva col marito ma dormiva con me , piuttosto di dormire stava sveglia, per accudirmi, cosa che non ha fatto mia madre.
[…]L’ho detto a mia madre (di essere stata violentata dal padre), come giustamente doveva essere, e poi l’ho detto a mio fratello […], lui dice che noi donne siamo tutte dalla nascita puttane. Io gli ho detto che avevo solo sette anni, non potevo sapere cosa significasse … in parole povere alla fine mi sono sentita colpevole io. Neanche io sono riuscita a proteggere mia figlia, però non c’ero, perché se io ci fossi stata stai tranquilla che a mia figlia nessuno gli avrebbe messo le mani addosso.
Ho visto mio padre picchiare mia madre (…)ha sempre massacrato mia madre, addirittura incinta di nove mesi le ha dato una botta con la scope e le ha rotto due costole (…).Io sono stata vittima di violenza dall’età di sette anni fino all’età di diciannove anni (…) sono stata violentata di brutto un giorno si e uno no. Erano sempre nascosti i posti dove mio padre mi portava. Se tu mi porti nei boschi io muoio, muoio subito, tu mi porti in una strada deserta io muoio, soprattutto di notte, io sono terrorizzata […]Ma nonostante questo non ho collaborato per vendicarmi.” (da Renate Siebert)
Davanti al tribunale di Milano, nel maggio 1996, sostiene: “Per me è stato come una salvezza, quell’arresto”.
Collaboratrici di giustizia e testimoni di giustizia; donne che scelgono di allontanarsi dalla violenza prima che sia troppo tardi, alcune ci riescono, altre non fanno in tempo. E da Rita Di Giovane arriviamo in fretta a storie come quella di Lea Garofalo (vi prego, non chiamatela collaboratrice perché è morta implorando di esserehiamata “testimone”, quale era) e ai “suicidi” di Maria Concetta Cacciola e Tita Buccafusca.
“Il vero disonore – scrive Celeste Costantino – purtroppo risiede in questo elenco di vittime che vi presentiamo, tutte in qualche modo innocenti. Lo sono quelle che hanno avuto la sfortuna di passare per caso da una strada in cui stava avvenendo una sparatoria e quelle che hanno tradito. Lo sono quelle che stavano semplicemente svolgendo il loro lavoro e quelle che hanno denunciato”.