Mio padre comprò una seicento multipla bianca e azzurra, che eravamo ancora piccoli. Era una macchina di seconda mano usata per trasportare la merce che gli serviva per la sua attività di idraulico. Aveva il sedile davanti rigido come una panchina, tutto assieme, foderato di finta pelle color nocciola. I sedili di dietro sembravano fatti per i bambini, all’occorrenza si ripiegavano su se stessi, totalmente, fino a lasciare il pianale completamente libero, come quello di un furgone. Mamma componeva con un materassino da mare un giaciglio per noi piccoli, quando d’estate si andava in Calabria. Sull’involucro gonfiato spesso a fiato, adagiava un lenzuolino pulito e i cuscini di casa. Tirava dentro tutto quello che poteva servirci per i pochi giorni che sarebbero rimasti loro e per i tanti nostri durante il mese di vacanza dai nonni. Trovavano posto anche i tanti doni pensati per tutti, giocattoli per i cugini, stoviglie per la nonna, taralli, uva, piccole cose che allora, in una Calabria ancora arcaica e povera, non venivano vendute. Per evitare le ore più calde del giorno, si partiva allora al mattino prestissimo, con il cielo ancora punteggiato di stelle, i miei davanti, seduti vicini attenti alla strada, noi piccoli, felici, sdraiati nell’alcova. Dal finestrino guardavo dal basso verso l’alto i profili delle case che sfilavano veloci inframmezzati da lembi di cielo scuro e dalle luci dei lampioni che si susseguivano, fino a finire nel cielo costante della campagna. Poi più nulla perché il sonno aveva la meglio sull’attenzione alle cose da guardare; anche l’eccitazione del viaggio si perdeva nella stanchezza. La strada da fare era lunga interrotta da tappe intermedie, piccole soste obbligate, anno dopo anno sempre uguali, ad Altamura per comprare il vino da portare al nonno, a Matera per il pane appena sfornato, nella piana di Sibari compravamo le pesche – la nonna le avrebbe messe nell’acqua ghiaccia del pozzo appena arrivati. Durante le soste facevamo capolino senza scendere – mamma ce lo impediva – assonnati e ansiosi di riprendere il cammino. Arrivavamo a Roseto al sorgere del sole, le colline argillose punteggiate di ginestre, il mare più sotto abbagliante d’azzurro e di luce. L’odore delle erbe selvatiche solleticava i miei sensi e, ormai sveglia, iniziavo a contare i ponti che passavano sui letti dei torrenti poveri d’acqua. Qualche volta la seicento gareggiava in velocità con un vecchio treno che viaggiava sul ponte parallelo a quello dove in quel momento passavamo. Mamma ci raccontava le storie della sua terra, perché il tempo passasse in fretta. Arrivati alle Paoline, sapevamo che avremmo trovato la nonna ad aspettarci con il suo abbraccio odoroso del fumo della legna della cucina economica. Anche la piccola cappella all’inizio della salita, che portava a casa dei nonni, sembrava aspettarci.
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