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Il vino (digitale) muore di parole

Da Trentinowine

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Dunque, ora mi do la zappa sui piedi. E dico una cosa che non dovrei dire: sono sempre più convinto che tutto questo gran parlare di vino che si fa in rete (web, social e tutto il resto) non faccia vendere una bottiglia in più. E forse non fa nemmeno crescere la cultura del vino. Forse, quando le cose sono fatte bene, fa crescere la reputazione di qualche marchio e di qualche azienda. Ma tutto qui.

Sull’ultimo numero dell’Enologo, la storica rivista di Assoenologi, ieri leggevo l’editoriale firmato a quattro mani dal presidente Cotarella e dal direttore Martelli. Non sono d’accordo con il teorema che sembrano inseguire: il vino si vende sempre meno, perché in rete se ne parla troppo. I consumi calano, è vero, ma per altre e ben più serie ragioni. Almeno credo. Almeno spero. Ma mi ritrovo, invece, nell’analisi che fanno del contesto: il vino socializzato in rete è troppo rumoroso e paradossalmente, proprio perché consumato immaterialmente dentro una soffocante e autopoietica dimensione digitale, diventa sempre più un’esperienza individuale e sempre meno un’esperienza socializzata.

Mentre leggevo l’editoriale dell’Enologo, mi veniva in mente ciò che qualche decennio fa scriveva Milan Kundera in quel grande capolavoro che è L’Insostenibile leggerezza dell’essere: “L’incontenibile aumento della grafomania tra uomini politici, autisti di taxi, partorienti, amanti, assassini, ladri, prostitute, prefetti, medici e pazienti, mi dimostra che ogni uomo, senza eccezione, porta in sé lo scrittore come una sua potenzialità, tanto che tutta la specie umana potrebbe a buon diritto scendere per strada e gridare: Noi siamo tutti scrittori! Tutti, infatti, soffrono all’idea di scomparire senza essere stati visti né uditi in un universo indifferente e per questo vogliono, finché sono in tempo, trasformare se stessi nel proprio universo di parole.

Ecco, non è forse che l’esperienza digitale invece di aiutarci a socializzare la conoscenza, rischia, anche quando parliamo di vino, di assumere il valore di un fragile e onanistico espediente di cui abusiamo quotidianamente per cercare, inutilmente, di vincere, individualmente, il nostro inevitabile destino, quello di scomparire senza essere stati visti né uditi?

Mentre ieri sera riflettevo su questo cose, su un gruppo Facebook di tema enoico, un utente rilanciava le parole scritte 45 anni fa da Mario Soldati nel suo ancora insuperato Vino al Vino: Trento è reliable, Trento è seria negli affari: ma ciò non significa che sia triste ed arida. Tutto al contrario. Trento e’ una città allegrissima. Non è un caso, forse, se abbiamo trovato proprio qui uno Spumante Secco perfetto: questo vino tecnico e, insieme, gaio, così difficile da fare e così facile, troppo facile da bere!” Due righe per descrivere, con estrema completezza, un territorio, e tre righe e cinque aggettivi – secco, tecnico, gaio, difficile, facile – per raccontare, con estrema competenza, un vino. Cinque righe e tutto era già stato scritto e detto. Uno stile asciutto, e la scienza e la preparazione del grande maestro, che hanno fatto guadagnare a Mario Soldati l’immortalità. E che suona invece come una lezione magistrale, ma inascoltata, per noi apprendisti stregoni, che ogni giorno anneghiamo desolatamente nel nostro universo di inutili parole digitali. 

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