di Claudia Boddi
Tra antiche credenze, vere e proprie manie, gesti scaramantici, riti portafortuna e tanto altro ancora, si snoda la vita di coloro i quali abitano l’affascinante mondo teatrale, anche quando il sipario è abbassato e le luci sono spente. Attento a curare tutti i dettagli, affinché il risultato sia perfetto – accanto alla preparazione tecnica e artistica – chi ama la ribalta, è spesso disposto a pagare anche l’inesorabile dazio della superstizione!
Ci sono alcune usanze, infatti, che sono conosciute da tutti, e che vengono riportate anche al di fuori dei contesti professionali, nei circoli di amici che si ritrovano per recitare nel quartiere o nelle compagnie amatoriali. Tra le più famose, c’è l’abitudine di gridare: “Merda, merda, merda!”, prima di ogni performance. Motto d’incoraggiamento o scarica che accende l’adrenalina, quando la tenda rossa è tirata, il cast al completo si stringe in un energico cerchio e, con le mani nelle mani a formare una catena, fa partire l’urlo che sale al ritmo della triplice ovazione. Proclama di buon auspicio dei protagonisti in campo affinché l’impegno profuso nelle prove, nello studio dei personaggi e in tutto il resto, sia adeguatamente ripagato dagli applausi, l’invocazione tripartita deriva direttamente dall’Ottocento. A quell’epoca, le persone erano solite andare a teatro in carrozza e, quanti più escrementi di cavallo c’erano dopo lo spettacolo fuori dall’edificio, tanto più importante era stato il suo successo in termini di pubblico.
Una delle preoccupazioni che più assillano gli attori e le attrici che preparano un’opera, è la caduta a terra del copione durante le prove. Se cade il copione, l’ansia s’impenna. Ovviamente, siamo in presenza di qualcosa di simbolico dal significato metaforico: il tonfo del canovaccio rappresenta il fallimento, la rovina dell’opera, e quindi, ogni volta che finisce a terra, l’attore prontamente è portato (o forse sarebbe più opportuno dire “tenuto”!) a riprenderlo e a batterlo per tre volte consecutive nel punto esatto dov’è caduto, per pareggiare il conto con il destino avverso. I più superstiziosi, a volte, compiono anche tre giri completi su loro stessi, nei pressi del luogo della caduta. Giusto, per essere più sicuri: abundare melius quam deficere! Anche se non c’è certezza sul motivo della scelta del numero tre per le volte necessarie a purificarsi dalla malasorte, è molto probabile che esso sia legato alla rappresentazione della cifra come quella della perfezione, e che quindi vada ad incarnare l’immagine di un glorioso successo per il lavoro in cantiere.
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Ma la più famosa abitudine scaramantica in assoluto è l’idea di sfortuna legata ad abiti di colore viola indossati a teatro. Non solo sul palco, dove abiti di scena di quel colore sono praticamente banditi fin dalla sartoria, ma nella maggior parte delle compagnie è sconsigliato anche solo avvicinarsi alla sala con in dosso un elemento di abbigliamento che richiama il fatidico colore. I portatori di tali affronti potrebbero essere invitati gentilmente (neanche sempre!) a lasciare la stanza o a cambiarsi vestito. Nel mirino della sfiga c’è tutta la gamma delle sfumature del colore: dal vinaccia al lilla, nessuno escluso. Questa tradizione ci arriva direttamente dal Medioevo quando, in tempo di Quaresima, gli ecclesiastici erano soliti indossare delle stole viola e interrompere ogni attività ludica e creativa, costringendo giullari e saltimbanco a uno stop forzato dei loro lavori. Questo significava fare letteralmente la fame per chi viveva di quest’arte, e la sopravvivenza diventava un problema. Da allora fino ad oggi, il viola in teatro viene associato alla malasorte, rimanda alla povertà e alla magrezza in senso lato. Assolutamente sconsigliato quindi vestirsi di viola… anche se siete tra il pubblico, prediligete altri colori, così non urterete la sensibilità degli addetti ai lavori!
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