Il vizio di assaggiare, che vezzo. Il racconto di Aurora Borselli per "La gaia mensa"

Da Silviamaestrelli

Da "A GRANGOLA!", cerimonia di premiazione del concorso letterario di Villa Petriolo 2010 La gaia mensa


Molti complimenti ad Aurora Borselli, autrice del racconto “Il minestrone della vedova”, segnalato per merito al quarto concorso letterario di Villa Petriolo “La gaia mensa”.
Questa, per il conferimento della menzione di merito al racconto di Aurora, la motivazione redatta dal nostro Presidente di giuria, il critico cinamatografico Enrico Ghezzi:Il minestrone della vedova. Storia discreta e provinciale di un riflesso. Oltre l'occhio dei fagioli, oltre il crescere automatico della necessita' frivola omicida. Contro il morto nel letto, il vizio dell'assaggiarsi".
Aurora Borselli è nata nel 1977 a Lucca ed abita a S. Cassiano a Vico (Lucca).
Racconto “Il minestrone della vedova” di Aurora Borselli
Non è che fosse cattivo, quello no. Ma era noioso.
Cantilenava, invece di parlare. Cantilenava del tempo e dei vicini.
Non erano tanto i difetti, era più la mancanza di pregi che lo rendeva così uggioso agli occhi di Adelina. Del resto l’aveva sposato per poter inserire nella lista di nozze il vassoio fiorentino, quello in legno color oro. Gli faceva la posta da mesi, assicurandosi di tanto in tanto che l’antiquario non lo vendesse.
“Adelina, ho capito che prima o poi ti sposi, ma non posso mica andare così, a fiducia. Non è che tu sia più di primo pelo, diciamocela tutta. E se il sangue è quello, conta un po’ quante zitelle ci sono in casa tua”. Tra cugine e sorelle erano quattro. Ben sopra la media. Nessuna era brutta, a parte Giorgia si intende, che aveva gli occhi più piccoli delle narici, e un aquilotto per sopracciglia. Adelina era bellina, sì, bellina. Ma aveva la lingua di una vipera. Tre giorni al massimo, le durava un fidanzato. Così era andata fino ai ventinove anni, finché non aveva deciso di mordersi la lingua per qualche mese, giusto il tempo di convincere quella nenia di Alfio a inserire il vassoio nella lista.
Alla fine aveva esposto il vassoio in salotto, e in cambio si era ritrovata un morto nel letto.
Invitava spesso gente a pranzo e a cena, per condividere quella noia. Così si era specializzata in zuppe, minestre e minestroni, che riempiono la pancia e si spende poco. Bastava uscire nell’orto e la zuppa era pronta. Un po’ di pane, l’olio buono, e si dimenticava la cantilena per due ore. Con l’aiuto di qualche quartino di vino rosso.
Bollire, soffriggere, dorare e mantecare. Assaggiare, salare, aggiungere un po’ di timo o rosmarino, profumare con la mentuccia selvatica o il basilico fresco. La cucina di Adelina era sempre in fermento, a ogni ora del giorno, per tutta la settimana. Alfio gonfiava il petto e cantilenava di quanto fosse brava, la sua Adelina, a non fargli gorgogliare lo stomaco. Intanto lei strizzava gli occhi e serrava le labbra a culo di gallina, per non tiragli una padella in testa.
Quel giorno, era un giovedì, aveva deciso di preparare il minestrone di legumi. I piselli secchi (invecchiati dal tempo e non dall’età, che quelli non servivano a nulla, tanto meno alla sua ricetta), l’orzo perlato, i fagioli dall’occhio e quelli bianchi, gli adzuki verdi, le lenticchie rosse e verdi, il farro, le fave decorticate. Mezzo chilo in tutto, così a occhio, in porzioni variabili a seconda di quello che era rimasto in dispensa. Tre cucchiai d’olio d’oliva, un battuto d’aglio, salvia e rosmarino. Far soffriggere e aggiungere il misto di legumi, dopo averli sciacquati ben bene, che qualche topino a volte allungava il naso in dispensa.
A Adelina piacevano i topi, sono animali intelligenti, diceva, si adattano a tutto e mutano continuamente abitudini. Ne liberava di continuo dalle trappole piazzate a tradimento da Alfio, e lui a chiedersi perché il suo formaggio non piacesse più a quelle bestiacce luride. Così passò al veleno, mescolato a palline di pane e latte, e quelle bestioline si contorcevano in preda a dolori lancinanti, finché non stramazzavano sul pavimento della cucina.
Una volta fatti rosolare ben bene i legumi, Adelina aggiunse tre litri d’acqua bella calda nel tegame di rame, lentamente, sempre mescolando col mestolo di legno, come faceva col brodo per i risotti.
A volte a metà cottura aggiungeva un paio di ramaioli di pomarola fresca, ma quel pomeriggio non ne aveva di pronta e decise per un altro ingrediente, speciale speciale per Alfio, che andava aggiunto soltanto alla fine.
Assaggiare era la parte migliore. Adelina sapeva aggiungere il sapore giusto ad ogni assaggio, solo lei riusciva a capire cosa mancava, e quanto bastava.
La tavola era apparecchiata per sei, il minestrone bolliva a fuoco lento, ben coperto da oltre un’ora. Mancava circa mezzora perché la cottura fosse ultimata, e poi bisognava farlo riposare un quarto d’ora almeno, perché tutti i sapori si contaminassero l’un l’altro. C’era ancora da preparare il pane, a fette alte e abbrustolite sulla griglia, con una strusciatina d’aglio e un filo d’olio nuovo. E poi mancava l’ingrediente speciale, quello che si poteva servire infinite volte ma assaggiare una sola.
Adelina prese dalla cantina due bottiglie di vino e una di veleno per topi. Tirò giù un paio di bicchieri colmi colmi di rosso forte, e fece un sospiro lungo un minuto buono.
Nel frattempo il minestrone aveva finito di cuocere e stava riposando nel tegame. Dispose le fette di pane croccante e annerito dal fuoco in un grande piatto sbeccucciato e dai colori vivi. Gli ospiti erano arrivati e sulla tavola mancavano solo i piatti fondi, che aveva portato in cucina a riempire. Lasciò per ultimo quello di Alfio, solo per lui aveva riservato l’ingrediente speciale.
Aprì la bottiglia, versò un paio di cucchiai grossi di veleno per topi nel piatto e poi vi aggiunse il minestrone, e una fettina di pane croccante. Lo insaporì con un filo d’olio.
Bastò un attimo, e si trovò sul pavimento in preda a dolori lancinanti.
Il vizio di assaggiare, che vezzo.

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